Abbiamo ribadito in più occasioni, su questo sito, il ruolo cruciale dei media nell’indispensabile processo di abbattimento delle barriere culturali e di affermazione di una nuova cultura della disabilità. Se passi avanti importanti si registrano in ambiti come il cinema e la moda, con un approccio al racconto della disabilità, e della diversità in generale, che ribalta molti stereotipi del passato, la pubblicità resta ancora un ambito pressoché precluso alle persone con disabilità: ad eccezione delle campagne di Pubblicità Progresso e del popolarissimo spot con Checco Zalone, quanti altri esempi di advertising vi vengono in mente con protagonisti persone con disabilità?
Ci sono, è vero, campagne che puntano a sradicare gli stereotipi legati al concetto di “ideale” di bellezza (un esempio per tutti: la campagna di Dove© per la Bellezza Autentica), ma manca ancora quel passo in più. Eppure, almeno 1/5 della popolazione mondiale, oggi, ha una qualche forma di disabilità: perché escludere queste persone dalla pubblicità, che, a rigore, dovrebbe riflettere tutte le sfaccettature del mondo in cui viviamo?
Tuttavia, qualcosa sembra muoversi. Negli USA, per esempio, sta facendo parlare molto di sé (anche grazie ad un utilizzo massiccio dei social media) Changing the Face of Beauty, un’associazione il cui obiettivo è quello di sollecitare i brand ad utilizzare nelle proprie campagne pubblicitarie anche persone con sindrome di Down.

Foto tratte dalla pagina Facebook di Changing the Face of Beauty
E a casa nostra? Come spesso accade, purtroppo, l’Italia ci mette un po’ a recepire determinati input. Eppure, qualcosa si muove anche nella nostra pubblicità. Ne è un esempio la foto comparsa sull’edizione milanese del quotidiano “la Repubblica” del 1° novembre scorso, per pubblicizzare Eataly Smeraldo, la sede meneghina della nota catena di ristoranti e negozi di enogastronomia “made in Italy”: per la prima volta, vi compare, in mezzo alle altre, una persona affetta da sindrome di Down, che lavora proprio in quel punto vendita. Quindi, non una rappresentazione pietistica della condizione di disabilità, ma un ritratto fedele della realtà: la ragazza, come gli altri colleghi ritratti nella foto, è presente nella foto nella propria veste professionale, non per “esibire il disabile” (e mettersi a posto la coscienza, magari destando un po’ di scalpore).
La vera inclusione di tutti si ottiene non solo garantendo pari opportunità di accesso al lavoro, allo studio, alla mobilità, ma anche vedendo sui media tutte le sfaccettature della società, incluse le persone con disabilità, colte nella propria normalità quotidiana, che, a ben guardare, non è poi tanto diversa da quella di chiunque altro.