Nei giorni scorsi, con l’approvazione (per adesso, solo al Senato, in attesa che si pronunci la Camera dei Deputati) del cosiddetto “Decreto Milleproroghe“, un’autentica doccia gelata si è abbattuta sulle speranze di più di 70.000 persone con disabilità di riuscire a vedere, finalmente, riconosciuto (seppure con l’aiuto di un’ulteriore legge) un diritto che, per tutti, è sancito dall’articolo 4 della nostra Costituzione: il diritto al lavoro.
La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto. Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società
Infatti, se fosse approvato anche dalla Camera, il Decreto Milleproroghe farebbe slittare al 1° gennaio 2018 l’entrata in vigore, per le aziende con più di 15 dipendenti, dell’obbligo di assumere (indipendentemente dalla volontà o necessità di effettuare nuove assunzioni) lavoratori con disabilità, per non incorrere nelle relative sanzioni, introdotte col Jobs Act. Rimarrebbe, naturalmente (e fortunatamente!) l’obbligo di assumerli nelle quote previste in caso di nuove assunzioni. Ma resta il fatto che, con l’eventuale (ennesimo) slittamento di un obbligo più stringente, si porrebbe un altro ostacolo (anche in questo caso, l’ennesimo) all’effettiva inclusione delle persone con disabilità nel mondo del lavoro, con le ovvie ricadute sul loro riconoscimento come membri a pieno titolo della società.
Esistono aziende che, trovandosi nella necessità di assumere nuovi lavoratori, non si fanno condizionare dall’eventuale disabilità, ma scelgono la persona in virtù delle sue competenze o esperienze, valorizzandola e consentendole di dare un fattivo contributo all’attività e alla crescita dell’azienda stessa. Ma queste rappresentano ancora delle sporadiche, per quanto lodevolissime, eccezioni, a fronte di tante altre che, pur di non assumere il (supposto) “peso morto” (il pregiudizio secondo il quale la “categoria protetta” lavora poco ed è “sempre in malattia” è duro a morire…), pagano la multa o di quelle che assumono le “categorie protette” (niente da fare: questa dicitura non riesco proprio a farmela piacere…), anche qualificate, per poi destinarle a mansioni poco rilevanti o ostacolarne, di fatto, la crescita professionale e la carriera.
Mi è capitato spesso, negli anni, di essere contattata da aziende o società di selezione che mi offrivano un lavoro in quanto “categoria protetta”, senza prestare la minima attenzione al mio curriculum (non esattamente privo né di titoli, né di esperienze qualificate, per mia fortuna). Alla mia obiezione “Ma ha letto il mio curriculum?”, la risposta è, più o meno, sempre la stessa: “Eh… ma cercano una categoria protetta… e Lei lo è”. Come a dire: “Ti sto offrendo un lavoro, e ti lamenti pure?”. La cosa triste è che questo atteggiamento, spesso, si riscontra anche nelle associazioni o negli organismi che dovrebbero tutelare il diritto al lavoro (e alle pari opportunità anche in quell’ambito) delle persone con disabilità: “Ti hanno offerto/Hai un lavoro, che vuoi di più? Pensa a chi non ce l’ha!”.
Ecco, questi atteggiamenti non si modificano o cancellano certamente solo a colpi di legge. Serve –come ha evidenziato anche Daniele Regolo, founder di Jobmetoo- lavorare molto sulla cultura della disabilità, far arrivare ovunque il messaggio secondo il quale la condizione di disabilità non è, di per sé, incompatibile con la possibilità di lavorare, anche ricoprendo ruoli di responsabilità (dove sta scritto che la persona con disabilità non può fare carriera?). Ma, nell’attesa che il lavoro anche su questo (enorme) fronte produca i propri frutti, è necessario che sia la legge a garantire questo diritto (non “gentile concessione”). E il Decreto Milleproroghe non va certo in questa direzione.