Tutti abbiamo un elenco più o meno lungo di libri che, per qualche motivo, si sono conquistati un posto speciale nel nostro cuore. In questa speciale categoria, per me, rientra anche “Non volevo morire vergine“, ultimo libro di Barbara Garlaschelli, uscito da un paio di mesi e già diventato (meritatamente!) un piccolo caso letterario.
Il libro racconta la storia della scrittrice, resa tetraplegica all’età di 15 anni dall’urto contro un sasso mentre si tuffava in mare. Barbara Garlaschelli aveva già raccontato la propria storia in “Sirena (mezzo pesante in movimento)” (titolo che, già da solo, suggerisce il tono autoironico col quale la donna racconta la propria situazione, smussandone così gli aspetti più duri e drammatici). Stavolta, però, la prospettiva è diversa. In “Non volevo morire vergine“, Barbara Garlaschelli condivide coi lettori la propria educazione sentimentale e sessuale, che, subito dopo l’incidente, le era sembrato un capitolo, per forza di cose, destinato a rimanere chiuso ancor prima d’essere veramente aperto.
Pagina dopo pagina, in “Non volevo morire vergine“, seguiamo l’evoluzione di Barbara dalla condizione di “auto-reclusa” nella propria armatura a giovane donna che diventa consapevole del fatto che, nonostante l’incidente e la condizione di “disabilitata” (la definizione è della stessa scrittrice), mantiene la propria femminilità e, con essa, anche la possibilità di piacere, sedurre, suscitare l’interesse, il desiderio e -perché no?- anche l’amore degli uomini. Inizia, così, una serie di relazioni più o meno coinvolgenti (non mancano neanche gli “stronzi” di turno, come nella vita di chiunque, “disabilitato” o meno), fino all’incontro con l’Amore con la A maiuscola.
La verginità della quale Barbara vuole (e riesce) a liberarsi non è solo quella strettamente sessuale, ma ha un senso più ampio:
“Vergine non solo nel corpo, ma di esperienze, di vita, di sbagli, di successi, di fallimenti, di viaggi, di sole”
Il tutto viene raccontato da Barbara Garlaschelli con uno stile leggero, che invoglia alla lettura, ma anche senza troppe censure. Cosa che, a volte, può spiazzare alcuni lettori, nei quali è ancora, più o meno inconsciamente, ben radicato il tabù che vede le persone con disabilità (e, in particolare, le donne) come esseri che, tutt’al più, ispirano pietà, ma di certo non hanno, come dice la scrittrice, “diritto al godimento, fisico e mentale, alle gioie della vita, in tutte le sue declinazioni” (con tutte le implicazioni che ciò comporta, anche nell’attuazione “monca” di politiche serie di accessibilità ed inclusione).
Ciò che ha spinto la scrittrice a condividere una sfera così intima della propria vita attraverso le pagine di “Non volevo morire vergine” non è l’esibizionismo, ma piuttosto la voglia di far passare un messaggio forte, destinato non solo alla società in generale, ma anche alle tante persone che, per propria o altrui volontà, si negano l’amore o anche, semplicemente, il piacere, convinte (magari, non solo da se stesse) di non poterne essere oggetto.
Un pensiero su ““Non volevo morire vergine”, educazione sentimentale di una “disabilitata””