Sanremo 2021 e il racconto delle disabilità

Premetto che non sono una grande fan del Festival di Sanremo, né dei varietà in generale. Tuttavia, oggi ne parlo perché nell’edizione di quest’anno si è parlato anche di disabilità, in una delle serate, con ben due interventi “a tema”: il monologo dell’attrice Antonella Ferrari e il siparietto fra Zlatan Ibrahimovic e Donato Grande, bomber della nazionale italiana di power-chair football. Due momenti diversi tra loro, sia per il “format” che per lo stile: da un lato, il monologo di Antonella Ferrari, incentrato sulla sua malattia (la sclerosi multipla) e sul racconto del percorso che l’ha portata ad avere, dopo anni, la diagnosi definitiva; dall’altro, il “duetto” fra il campione del Milan e il suo collega “seduto”, con qualche scambio di palla a favore di telecamere. Ma, in entrambi i casi, guardando i video, ho trovato delle “stonature”, più o meno pronunciate”. Analizziamoli singolarmente, per capire meglio.

Antonella Ferrari a Sanremo 2021

Antonella Ferrari si è presentata sul palco di Sanremo in un elegantissimo abito rosso, presentando un breve monologo, molto coinvolgente, nel quale ha raccontato il percorso verso la diagnosi e la sua conseguente felicità, perché, quando finalmente l’ha avuta, non ha più dovuto “nascondersi” (per la vergogna? Per paura del giudizio altrui?), per poi toccare il culmine nel finale:  “La malattia non dev’essere la protagonista. Io non sono la sclerosi multipla: io sono un’attrice, sono Antonella Ferrari”. Verissimo e giustissimo, ma allora perché incentrare il monologo esclusivamente su quel tema? Per sensibilizzare, certo. Ma siamo sicuri che il messaggio arrivato agli spettatori sia stato, effettivamente, quello? A giudicare dai commenti che ho letto sui social il giorno dopo, non credo: ne lodavano tutti il coraggio, l'”esempio” e tutto il campionario della solita, trita e ritrita, retorica che circonda chi vive con una disabilità.

Donato Grande a Sanremo 2021

Ma questo è ancora “niente” in confronto a quanto si è visto quando sul palco è salito Donato Grassi, con Amadeus e Zlatan Ibrahimovic: lui in abbigliamento casual (e maglia da calcio d’ordinanza), in mezzo agli altri due elegantissimi (come l’occasione avrebbe richiesto); una situazione che, nel complesso, ricordava più l’interazione fra due adulti e un bambino (manco a dirlo, quello con disabilità…) che fra tre uomini maggiorenni e l’impressione complessiva che il tutto, più che un omaggio a Donato e alle sue doti sportive, fosse un modo per mettere in risalto il ben più celebre collega. Per non parlare di Amadeus che, partito, tutto sommato, bene, è scivolato in vari punti: dal riferimenti ai diritti di chi “soffre di disabilità” (la disabilità è una condizione, non una malattia…), ai “portatori di handicap“, alla ramanzina paternalista a quelli che, utilizzando i parcheggi riservati, creano problemi a chi ne avrebbe diritto (le sue parole sono state “leggermente” diverse…). Insomma, anche qui, la solita retorica…

Possibile che, nel 2021, non si riesca ancora a mostrare e raccontare le disabilità in un modo che sfugga al dualismo fra “supereroi” e “poveri cristi”? Eppure, sarebbe così semplice… Basterebbe ricordarsi che essere diversi è del tutto normale, non c’è bisogno di usare linguaggi e atteggiamenti infantili: basta il rispetto per le persone, insomma.

Ce la faremo? Spero di sì, nonostante tutto. “Perché Sanremo è Sanremo“…

Davvero “andrà tutto bene”? I “dimenticati” del lockdown

In questi circa tre mesi di “lockdown” (o blocco che dir si voglia) ho preferito restare in silenzio, almeno su Move@bility. Mi dicevo: “Che senso avrebbe parlare di libertà di movimento, in un momento in cui è richiesto a tutti di rinunciare, per l’appunto, alla libertà di movimento a causa di una pandemia?“. Questo periodo è stato complesso e pesante, sia fisicamente che psicologicamente, per mille motivi, anche per me come, in modi e per ragioni diverse, per ciascuno di noi. E proprio per questo temevo che spazi (questo sito, ma anche le sue estensioni social) che avevo pensato come luoghi di confronto, riflessione e mobilitazione “positiva” per creare insieme un mondo senza barriere potessero trasformarsi, in qualche modo, in altri “sfogatoi”, come se ne vedono, a mio avviso, fin troppi, online e non solo. Però, adesso che in Italia siamo ufficialmente entrati nella Fase-2, forse si può anche ricominciare a parlare di temi che, in questi mesi, sono rimasti decisamente sottotraccia.

Lockdown - silenzio

Per esempio, chi ha decretato il lockdown ha pensato a garantire, a volte con qualche problema iniziale, l’approvvigionamento di cibo e farmaci a domicilio per persone anziane o con disabilità impossibilitate ad uscire di casa o che si sono ritrovate senza il supporto di familiari e amici non conviventi. Ma non è stato fatto altrettanto per le terapie extra-farmacologiche: fisioterapia, terapia occupazionale e altri trattamenti specifici non sempre fruibili a domicilio o che, comunque, richiedono la presenza attiva di altre persone (i fisioterapisti, per fare un esempio)- Per molti (me compresa), queste terapie sono dei veri e propri “salvavita“. Eppure, la risposta era sempre la stessa: non si può, tocca aspettare.

Lockdown - Didattica a distanza

Stessa sorte (per certi versi, anche più gravida di conseguenze a medio-lungo termine) per gli studenti con gravi disabilità, che, con la scuola trasformata in didattica a distanza, sono spesso stati privati, di fatto, di un diritto costituzionale fondamentale. Senza contare che, per molti di loro, la scuola non era solo un’opportunità di apprendimento, ma anche di socializzazione con i coetanei. Ne avete sentito parlare nei decreti, nei telegiornali, nelle lunghe ore di approfondimento (o supposto tale) sul tema del momento, ne avete letto sui quotidiani o sui siti non “di settore”? Io, praticamente mai.

Lockdown - Distanziamento sociale

Per contro, una cosa della quale si è parlato per tutta la durata del lockdown e si parla tuttora fin troppo è il famigerato “distanziamento sociale“. A me, che con le parole lavoro da sempre, quest’espressione ha fatto venire la pelle d’oca fin dalla prima volta in cui l’ho sentita. Ok, per ridurre al minimo le possibilità di diffusione di un virus particolarmente aggressivo e ancora per molti versi sconosciuto, è raccomandabile mantenere una certa distanza fisica. Ma  il concetto di “distanziamento sociale” va oltre la mera distanza fisica, associando ad essa l’idea che ci si debba tenere lontani anche emotivamente dalle altre persone.

Personalmente, ritengo questa visione delle cose molto pericolosa, in generale per tutti, ma in particolare per chi già prima della pandemia e del lockdown si sentiva (e, spesso, era di fatto) “socialmente distante” dagli altri, a causa di barriere architettoniche e culturali. Credo che, invece, ora più che mai serva essere “socialmente vicini“, anche se (temporaneamente) fisicamente distanti. Mi auguro che la “nuova normalità” che, spero, costruiremo insieme non dimentichi di essere attenta anche a coinvolgere fin da subito, e da protagoniste attive,  anche le persone con disabilità. Ma dipende anche da noi e dalla nostra disponibilità a non farci dimenticare e ad impegnarci in prima persona, mettendoci la faccia e l’impegno attivo, ciascuno secondo le proprie possibilità e capacità.

Solo così potremo dire davvero che “andrà tutto bene“. Buona ripartenza!

ThisAbles, Ikea per una casa a misura di tutti

Avete mai pensato che, per chi convive con determinate disabilità, anche la propria casa può diventare un ambiente “ostile” e pieno di insidie? A  volte, basterebbero degli accorgimenti minimi per rendere un mobile o un ambiente pienamente fruibile anche da chi ha qualche limitazione fisica. Da questo presupposto è nato ThisAbles, il progetto di Ikea Israele e dell’organizzazione non-profit Milbat che consente a chi ha disabilità di selezionare, attraverso il sito web dedicato all’iniziativa, adattamenti per mobili (naturalmente, Ikea) di uso comune (sedie, letti, divani, etc.) in casa  che consentano di facilitarne l’utilizzo anche da parte di chi ha esigenze speciali.

Alcuni prodotti possono anche essere stampati in 3D direttamente dagli utenti, semplicemente scaricando il relativo file dal sito. Attualmente, ThisAbles comprende 13 hack che riguardano diversi ambienti della casa: il salotto, lo studio, la camera da letto e il bagno. Maniglie speciali che aiutano ad aprire e chiudere gli armadi, interruttori più facili da raggiungere, supporti per bastoni ed estensioni per le gambe dei divani, per fare qualche esempio.

Cane by me - Supporto per bastone

Cane by me, supporto per bastone

Ma si può fare molto di più! Il sito, infatti, invita gli utenti a collaborare per ampliare il catalogo degli upgrade, inviando idee e proposte adattate alle singole esigenze, oltre a segnalare quali, tra gli oggetti già in catalogo, sono i più adatti per aiutare le persone con disabilità nelle loro attività quotidiane.

Sollevatore per il divano

Sollevatore per il divano

Il progetto di ThisAbles è perfettamente in linea con la vision dell’azienda svedese “create a better everyday life for as many people as possible” (“creare una vita quotidiana migliore per il maggior numero di persone possibile“). C’è da sperare che venga presto proposto anche negli altri Paesi nei quali è presente Ikea e che, magari, altri brand ne seguano l’esempio. Perché, come diciamo sempre, un mondo più accessibile è un vantaggio per tutti, non solo per chi ha “esigenze speciali”.

 

“Eleanor Oliphant”: diversità, solitudine e speranza

Ho sempre amato molto leggere, ma non sempre i libri che ho avuto sotto mano mi hanno lasciato dentro un segno profondo. Non è decisamente il caso dell’ultimo che ho letto, “Eleanor Oliphant sta benissimo“, romanzo d’esordio della scozzese Gail Honeyman, che è diventato un piccolo “caso letterario” e si appresta a diventare anche un film.

"Eleanor Oliphant sta benissimo"

“Eleanor oliphant sta benissimo”: la trama

Tranquilli: niente spoiler! 🙂 Non ho intenzione di rovinarvi il piacere di leggere questo romanzo avvincente e molto ben scritto. Mi limiterò solo a raccontarvi qualcosa della storia di Eleanor, un personaggio di quelli difficili da dimenticare. Eleanor è una giovane donna inglese con una vita apparentemente “insignificante”, tra il lavoro come contabile in un’agenzia di graphic design e la solitudine del proprio appartamento, con una pianta e la vodka come unica compagnia. Eleanor ha un carattere schivo, non le interessa essere alla moda, né legare coi colleghi, che, d’altronde, non fanno granché per stabilire un contatto meno che formale con lei.  La vedono come una “strana entità”, per il suo abbigliamento fuori moda, l’aspetto sciatto (contraddistinto da una cicatrice che le deturpa il viso, retaggio dell’evento che ha segnato la sua vita), le abitudini insolite. Perciò, la canzonano, isolandola e rivolgendole, tutt’al più, battutine e nomignoli poco simpatici. Ma lei, come dice il titolo, “sta benissimo“. O, almeno, così crede, finché, complice una serie di eventi che non vi svelerò, inizierà a capire che c’è vita oltre i confini della sua routine e, gradualmente, imparerà anche a fare i conti con i propri fantasmi.

eleanor, “una di noi”

‘Sono stata al centro di fin troppa attenzione in vita mia. Ignoratemi, passate oltre,
non c’è nulla da vedere qui!’ 

In questa citazione, tra le mie preferite del romanzo, ho ritrovato uno degli aspetti che mi fanno sentire emotivamente più vicina ad Eleanor: anch’io, infatti, per gran parte della mia vita, ho desiderato ardentemente solo di essere invisibile, di non suscitare curiosità morbosa da parte della gente che incontravo. Ma anch’io, come lei, sto gradualmente imparando a far pace con me stessa, a perdonarmi per ciò di cui non ho colpa e a guardare agli altri in modo diverso, non necessariamente come potenziali “minacce”, ma anche come opportunità, in tutti i sensi.

Ecco, quindi, perché consiglio a tutti, se non l’avete ancora fatto, di leggere questo bellissimo romanzo: una boccata d’aria fresca e un barlume di speranza per tutti. Perché, in fondo, in ognuno di noi c’è un po’ di Eleanor.

“Tutti in piedi”, un racconto insolito di amore e disabilità

È uscito da pochi giorni, nelle sale italiane, “Tutti in piedi“, una commedia francese che affronta in termini insoliti un tema che è stato spesso trattato dal cinema, soprattutto negli ultimi anni: amore e disabilità.

Cosa c’è di insolito in “Tutti in piedi”? Innanzitutto, che i ruoli, in qualche modo, si rovesciano. Jocelyn, il protagonista maschile, è il classico dongiovanni impenitente, che cerca di conquistare qualsiasi donna gli capiti sotto il naso. E proprio questo suo istinto “cacciatore” lo porta a conoscere Florence, una donna affascinante e dalla vita molto attiva, raffinata musicista e campionessa di tennis, che, a causa di una disabilità motoria, si muove con una sedia a rotelle. Lui ne rimane immediatamente colpito e, per una serie di equivoci (la sorella di Florence, vicina di casa della defunta madre di Jocelyn, vedendolo seduto sulla sedia a rotelle della madre, pensa che anche lui abbia una disabilità motoria), finisce per sentirsi costretto a portare avanti la finzione, nel timore di non essere più accettato da Florence, se dovesse mostrarsi per quello che è.

"Tutti in piedi"

Una scena di “Tutti in piedi”

Proprio questo rappresenta, per molti versi, un elemento “nuovo” nel racconto delle dinamiche  “standard” tra persone con disabilità e normodotate: non è Florence a sentirsi inadeguata a causa della propria condizione, ma Jocelyn, che teme di non piacerle più se dovesse scoprire la verità sul suo conto.

Il regista di “Tutti in piedi”, Franc Dubosc, che interpreta anche il ruolo di Jocelyn, ha dichiarato che l’idea di realizzare un film che parlasse di disabilità gli è venuta dall’esperienza della madre, che, anziana, si ritrovò a non poter più camminare con le proprie gambe e a dover fare i conti con le tante barriere architettoniche (e non solo), alle quali, fino a quel momento, né lei né i familiari avevano fatto caso più di tanto. Da quell’esperienza è nata, per il regista, una consapevolezza nuova e una crescente curiosità verso la vita quotidiana delle persone con disabilità, inclusi gli aspetti relazionali. Durante la realizzazione del film, si è reso conto che, col tempo, i timori iniziali di urtare la sensibilità delle persone con disabilità si dissipavano, man mano che continuava a girare. Così, è giunto alla conclusione che, in definitiva, non servono particolari cautele per interagire (anche con finalità sentimentali) con una persona con disabilità: basta ricordarsi di avere davanti una persona, anziché una patologia o una condizione.

“Ciak si aggira”:evitare le barriere architettoniche è un gioco

Tutti noi sappiamo quanto numerose siano le barriere architettoniche che, quotidianamente, si trova a dover affrontare chi ha una disabilità, ma anche chi va in giro per le nostre città con bambini piccoli o bagagli ingombranti. Molte di queste barriere sono frutto di noncuranza o sbadataggine (per esempio, le auto parcheggiate davanti agli scivoli che consentono l’accesso a chi si muove con una sedia a rotelle). Come sensibilizzare la collettività a “mettersi nei panni degli altri” e, di riflesso, le amministrazioni (locali e nazionali) a progettare spazi realmente “accessibili”? Un modo può essere, per esempio, partire dai bambini, abituandoli a questo atteggiamento mentale attraverso il gioco. Da questo spunto è nata l’idea di “Ciak si aggira“, un gioco da tavolo rivolto ai bambini dai 6 anni in su ideato da Ermio De Luca, ingegnere che convive con una disabilità e quindi conosce direttamente il problema.

Ciak si aggira

la storia

Protagonisti di “Ciak si aggira” sono sei bambini: Fabio, Giorgio, Mauro, Adele, Fanny e Marta, più la “guest star” Isotta, la sedia a rotelle che Fabio utilizza. I sei amici vivono insieme mille avventure e amano andare in giro per la città, a scoprire posti nuovi: ma riusciranno a farlo senza che le barriere architettoniche rovinino loro la festa?

Ciak si aggira - I sei amici e Isotta

come si gioca a “ciak si aggira”?

Il principio alla base di “Ciak si aggira” è quello del celeberrimo gioco dell’oca:  i giocatori, attraverso delle pedine, debbono spostarsi lungo il percorso tracciato sul tabellone, riconoscendo e, per l’appunto, aggirando le barriere architettoniche che incontrano, imparando a conoscere anche gli effetti che tali ostacoli hanno sulla mobilità di chi utilizza sedie a rotelle o ausili per camminare.

Il gioco è edito da La Macina Onlus, costa € 19,50 e si può richiedere inviando una mail a emailtowork@libero.it. Se state cercando un’idea-regalo divertente, ma anche utile ed intelligente per i vostri bambini, approfittatene!

“La forma dell’acqua”: una favola sulle diversità

Se siete tra quelli (pochi) che non l’hanno ancora visto, spero di convincervi ad andare subito al cinema! Perché “La forma dell’acqua“, il film di Guillermo del Toro vincitore del Leone d’Oro alla Mostra Internazionale del Cinema di Venezia nel 2017 e di quattro Oscar solo un paio di mesi fa, racconta una storia difficile da dimenticare, che tocca le corde più profonde del cuore.

“La forma dell’acqua” è una favola ambientata nella Baltimora dei primi anni ’60, in piena guerra fredda. I protagonisti rappresentano varie diversità: Elisa, orfana resa muta dalla recisione delle corde vocali subita da bambina; Zelda, sua collega, afroamericana e addetta alle pulizie, come Elisa; Giles, l’anziano disegnatore pubblicitario omosessuale coinquilino di Elisa, discriminato sul lavoro. E poi, ovviamente, lui, il Deus Brânquia, la “forma” cui fa riferimento il titolo del film (e del romanzo che costituisce l’altra parte del progetto), venerato come un dio dalle popolazioni dell’Amazzonia e catturato e portato in catene nel laboratorio governativo in cui lavorano Elisa e Zelda, per studiarlo allo scopo di contrastare la Russia. Esseri emarginati che, fatalmente, s’incontrano e finiscono per costituire un gruppo affiatato, per quanto all’apparenza bizzarro.

La forma dell'acqua - Elisa e il Deus Brânquia

Elisa, che è riuscita ad instaurare un rapporto di muta complicità con la creatura, decide di fare di tutto per salvarla da un destino apparentemente segnato e, con l’aiuto di Giles, Zelda e di uno degli scienziati del laboratorio (che, in realtà, è una spia russa in incognito), riesce a portarla in salvo nel proprio appartamento. Qui, i due finiscono per innamorarsi, ma, prima del lieto fine, dovranno ancora superare vari ostacoli, in un crescendo di tensione ed emozioni.

Il finale de “La forma dell’acqua” (che non vi svelerò) è decisamente “da favola”, un po’ come il registro complessivo del film. Ciò nonostante, questa pellicola riesce, con delicatezza e poesia, a lanciare un messaggio potentissimo, nella sua semplicità: al di là delle nostre differenze, siamo tutti uguali, in fondo, e tutti degni di essere trattati (ed amati) con rispetto ed umanità.

“Ascolta i miei passi”: l’autismo incontra il carcere

L’autismo è una malattia della quale, ancora oggi, si sa ben poco, sia per quanto riguarda le cause che, di conseguenza, quanto alla cura e, in generale, alle modalità più adatte per stabilire un contatto con chi ne è affetto. Le persone con autismo sono spesso vittime di pregiudizi e convinzioni errate (influenzate anche dal modo in cui questa condizione è stata spesso descritta dal cinema), nonché tenute in disparte perché “strane” (e, quindi, potenzialmente pericolose, secondo molti). Come capire l’universo di chi convive con l’autismo? Come creare vicinanza e dialogo? Il progetto “Ascolta i miei passi“, promosso dall’Associazione Ortica di Milano si propone di sensibilizzare l’opinione pubblica su questo tema, partendo dall’ascolto diretto dei protagonisti: le persone con autismo, che si raccontano a loro modo in brevi audio, consentendo così di conoscerne la quotidianità, il percorso di vita, i sogni, le speranze.

Ascolta i miei passi

In occasione della Settimana della Disabilità (dal 27 novembre al 2 dicembre), l’Associazione Ortica ha portato “Ascolta i miei passi” all’interno di un luogo che, nell’immaginario comune, rappresenta anch’esso un “mondo a parte”, nonostante si trovi nel cuore della città: il carcere di San Vittore. Grazie ad un accordo con la direzione del carcere, nei cinque incontri organizzati, i detenuti hanno potuto ascoltare in cuffia le storie raccontate direttamente dalle persone con autismo. Non solo: hanno anche avuto la possibilità di calarsi direttamente nella realtà delle persone narranti, indossandone simbolicamente le scarpe: quelle di bambini che hanno appena ricevuto la diagnosi, scarpe da ginnastica dell’adolescente che cammina cento mille volte avanti e indietro per scaricare l’ansia, o, ancora, le scarpe di un uomo che vorrebbe diventare protagonista della sua vita ma non ce la fa perché è vittima del pregiudizio.

Un tema, quello del pregiudizio, che accomuna persone con autismo- e persone con disabilità in genere- e persone detenute, in fondo. Basterebbe semplicemente conoscere da vicino queste realtà per rendersi conto che, in definitiva, le differenze sono molto meno marcate di quanto si creda. Ed è proprio questo il significato del nome scelto per il progetto “Ascolta i miei passi“. Come recita un proverbio dei nativi americani:

Prima di giudicare la mia vita o il mio carattere mettiti le mie scarpe, percorri la strada che ho percorso io. Vivi il mio dolore, i miei dubbi, le mie paure, le mie risate. Ricorda che ciascuno di noi ha la propria storia. Quando avrai vissuto la mia vita, potrai giudicarmi

Turismi accessibili: un premio a chi li fa conoscere

Parliamo spesso di turismi accessibili, una tendenza che si sta affermando sempre di più (fortunatamente!), testimoniando una maggiore sensibilità verso la legittima esigenza e voglia di tutti di viaggiare, conoscere nuovi Paesi e culture diverse dalla propria. Tra l’altro, varie iniziative (anche di “casa nostra”) dimostrano come l’attenzione ai turisti con “esigenze speciali” non sia solo un gesto nobile, ma anche una strategia lungimirante e remunerativa: infatti, considerando che, limitando il discorso alle sole persone con una qualche disabilità, parliamo di circa un quarto della popolazione mondiale, non pensare a modalità per accogliere adeguatamente anche loro significa rinunciare ad una fetta di mercato non proprio trascurabile.

turismi accessibili

Rimane, però, spesso, un problema: far passare correttamente il messaggio sull’importanza dei turismi accessibili e far conoscere tutti i servizi, le strutture e le iniziative già presenti in quest’ambito attraverso i media. Da quest’esigenza nasce un’iniziativa della onlus Diritti Diretti: il Premio Turismi Accessibili, che vuole, per l’appunto, premiare giornalisti, pubblicitari e comunicatori che riescono a “superare le barriere“, raccontando attraverso servizi radio-televisivi, campagne pubblicitarie, video o campagne di comunicazione quelle realtà che sono riuscite a produrre sviluppo socio-economico coniugando attrattività, innovazione, estetica e/o sostenibilità alla cultura dell’accessibilità.

Premio Turismi Accessibili

 

Il Premio Turismi Accessibili, giunto alla terza edizione, è rivolto all’accessibilità che già esiste, nelle varie tipologie di turismo: culturale, enogastronomico, sportivo, congressuale, balneare, montano, termale, scolastico, religioso. L’obiettivo è quello di dimostrare con esempi concreti ai privati e alle istituzioni che investire davvero in accessibilità può migliorare un territorio e la sua offerta turistico-culturale, a vantaggio sia delle persone che lo visitano che di quelle che ci vivono e- aspetto non secondario- con ricadute economiche importanti per le imprese che operano in quest’ottica.

COME PARTECIPARE AL PREMIO TURISMI ACCESSIBILI?

Per partecipare, è necessario registrarsi, compilando, entro il 5 maggio 2018, il form presente sul sito del Premio Turismi Accessibili. Tra i partecipanti, verranno selezionati due vincitori: il  progetto più votato dal pubblico si aggiudicherà 1000 €, mentre quello selezionato dalla giuria di esperti riceverà una targa. Tutti i particolari sul concorso sono consultabili sul bando dell’iniziativa.

PS. Anche Move@bility partecipa al premio con l’articolo dedicato a “B&B Like Your Home“. Potete votarlo a questo link

World Usability Day: il design per l’inclusione

Quello della “user experience” (letteralmente: l’esperienza dell’utente) è un aspetto sempre più importante per chi si occupa di progettazione e design, a tutti i livelli. Lo ribadisce l’edizione 2017 del World Usability Day, la manifestazione che si svolgerà, per il quarto anno consecutivo, a Roma l’8 e il 9 novembre prossimi, mettendo insieme esperti italiani ed internazionali in workshop e talk tematici. Il World Usability Day è la Giornata Mondiale dell’ Usabilità, nata nel 2005 come iniziativa della Usability Professionals ‘Association (UXPA). Da allora, ogni anno, il secondo giovedì di novembre, in tutto il mondo vengono organizzati eventi con l’obiettivo di sensibilizzare circa l’importanza di pensare e progettare tenendo presente, in primo luogo, il soggetto principale: l’utente al quale è destinato ciò su cui si sta lavorando.

World Usability Day 2017

Il tema a cui è dedicata questa edizione del World Usability Day è la user experience come promotrice dell’inclusione. L’obiettivo dei professionisti del design, infatti, dev’essere contribuire a plasmare un futuro migliore, tenendo presenti le esigenze e le specificità di tutte le persone, considerate nella loro unicità. In un mondo che cambia rapidamente, anche sul piano politico e demografico, è impensabile continuare a progettare pensando unicamente ad una porzione della popolazione, dimenticando la restante.

Come raggiungere questo ambizioso obiettivo? Gli speaker che si avvicenderanno sul palco del World Usability Day proporranno vari punti di vista e spunti di riflessione: il design thinking per creare tecnologie e prodotti per tutti, l’accessibilità e l’usabilità di servizi, l’empatia come base di un processo di progettazione incentrata sull’individuo.

Quest’iniziativa sottolinea, ancora una volta, la crescente consapevolezza della necessità, ormai ineluttabile, di pensare secondo le logiche del “Design for All“, sviluppando prodotti e servizi che siano in linea con le specifiche abilità, attitudini ed esigenze degli utenti. Spesso, dicono gli stessi addetti ai lavori, sono proprio i designer ad essere riluttanti al cambiamento. Perciò è importante aiutarli ad approcciarsi al proprio lavoro con uno strumento del quale tutti, in quanto esseri umani, siamo dotati: l’empatia, vale a dire la capacità di “metterci nei panni” dell’altro, sentendone come nostri i suoi bisogni, stati d’animo e vissuti.