“Tutti in piedi”, un racconto insolito di amore e disabilità

È uscito da pochi giorni, nelle sale italiane, “Tutti in piedi“, una commedia francese che affronta in termini insoliti un tema che è stato spesso trattato dal cinema, soprattutto negli ultimi anni: amore e disabilità.

Cosa c’è di insolito in “Tutti in piedi”? Innanzitutto, che i ruoli, in qualche modo, si rovesciano. Jocelyn, il protagonista maschile, è il classico dongiovanni impenitente, che cerca di conquistare qualsiasi donna gli capiti sotto il naso. E proprio questo suo istinto “cacciatore” lo porta a conoscere Florence, una donna affascinante e dalla vita molto attiva, raffinata musicista e campionessa di tennis, che, a causa di una disabilità motoria, si muove con una sedia a rotelle. Lui ne rimane immediatamente colpito e, per una serie di equivoci (la sorella di Florence, vicina di casa della defunta madre di Jocelyn, vedendolo seduto sulla sedia a rotelle della madre, pensa che anche lui abbia una disabilità motoria), finisce per sentirsi costretto a portare avanti la finzione, nel timore di non essere più accettato da Florence, se dovesse mostrarsi per quello che è.

"Tutti in piedi"

Una scena di “Tutti in piedi”

Proprio questo rappresenta, per molti versi, un elemento “nuovo” nel racconto delle dinamiche  “standard” tra persone con disabilità e normodotate: non è Florence a sentirsi inadeguata a causa della propria condizione, ma Jocelyn, che teme di non piacerle più se dovesse scoprire la verità sul suo conto.

Il regista di “Tutti in piedi”, Franc Dubosc, che interpreta anche il ruolo di Jocelyn, ha dichiarato che l’idea di realizzare un film che parlasse di disabilità gli è venuta dall’esperienza della madre, che, anziana, si ritrovò a non poter più camminare con le proprie gambe e a dover fare i conti con le tante barriere architettoniche (e non solo), alle quali, fino a quel momento, né lei né i familiari avevano fatto caso più di tanto. Da quell’esperienza è nata, per il regista, una consapevolezza nuova e una crescente curiosità verso la vita quotidiana delle persone con disabilità, inclusi gli aspetti relazionali. Durante la realizzazione del film, si è reso conto che, col tempo, i timori iniziali di urtare la sensibilità delle persone con disabilità si dissipavano, man mano che continuava a girare. Così, è giunto alla conclusione che, in definitiva, non servono particolari cautele per interagire (anche con finalità sentimentali) con una persona con disabilità: basta ricordarsi di avere davanti una persona, anziché una patologia o una condizione.

“Diversamente Amore”: operazione riuscita?

I concetti di “inclusione” e “accessibilità“, per come le intendo io, non si applicano soltanto agli spostamenti, all’eliminazione delle barriere architettoniche, all’accesso al lavoro. Tutti ambiti importantissimi, anzi fondamentali per una buona qualità della vita. Ma non è meno importante, come abbiamo avuto modo di sottolineare in varie occasioni, la possibilità di vivere pienamente anche un aspetto troppo spesso sottovalutato (quando non del tutto trascurato) della vita di tutte le persone, comprese quelle con una disabilità di qualsiasi tipo: l’affettività in tutte le sue sfaccettature. Proprio a questo tema è stata dedicata “Diversamente Amore“, la trasmissione tv trasmessa nei giorni scorsi su Rai2 (e, ancora per qualche giorno, visibile gratuitamente su Raiplay.it), condotta- o, meglio, raccontata- dalla campionessa paralimpica Bebe Vio.

Diversamente Amore

Diversamente Amore” è il racconto, fatto direttamente dalla viva voce dei protagonisti, delle storie d’amore di cinque coppie “diverse”, vale a dire con almeno uno dei componenti affetto da una qualche forma di disabilità. Dal racconto della quotidianità delle coppie emerge, sostanzialmente, un messaggio di fondo: al di là delle condizioni specifiche delle persone (e delle esigenze particolari che ne derivano), una persona con disabilità (di qualsiasi tipo) può amare ed essere amata esattamente come chiunque altro. Le limitazioni imposte dalla condizione di disabilità non implicano , di per sé, l’impossibilità di amare, né, men che meno, quella di essere amate… anche da persone perfettamente “normali”.

Bella idea, quella alla base di “Diversamente Amore“, sicuramente. In un contesto sociale nel quale, nonostante i progressi fatti negli ultimi decenni, è ancora la norma, per le persone con una disabilità visibile, sentirsi “gli occhi addosso” (e non certo per ammirazione…), essere considerate, alternativamente, “sventurate” da compatire (quando non da evitare o, in casi estremi, su cui accanirsi e sfogare gli istinti più beceri, come ci ricordano vari tristissimi episodi di cronaca) o “eroine” delle quali esaltare il “coraggio” e la “forza”, qualsiasi cosa che serva a ricordare che anche chi ha una disabilità, al di là dei propri problemi specifici, affronta le stesse situazioni di tutti (problemi sul lavoro, storie d’amore più o meno felici, piccole-grandi difficoltà quotidiane, etc.) è benvenuta. Anche il tono dei racconti è riuscito ad evitare (quasi sempre) il pietismo, che troppo spesso è la cifra stilistica di questi esperimenti.

Disabili e sessualità

Tuttavia… Non so a voi, ma, a me, guardando la trasmissione, è sembrato che mancasse qualcosa. Cosa? Beh, certamente scegliere solo cinque storie che fossero rappresentative del multi-sfaccettato mondo delle disabilità non era impresa semplice. Ma, salvo alcune differenze secondarie, le situazioni e le problematiche quotidiane narrate in almeno un paio di storie erano molto simili, per non dire quasi sovrapponibili. Sarà che sono parte in causa, ma sarebbe stato bello vedere storie anche diverse dallo stereotipo- durissimo a morire- “disabilità motoria = sedia a rotelle”. Inoltre, mi è sembrato che, anche in questo caso, si sottolineasse fin troppo l’aspetto “eroico” della situazione delle coppie, il “coraggio” di mettersi e stare insieme, sia rispetto alla parte “diversa” delle coppie che a quella “normale”. È vero: stare insieme ad una persona con una disabilità “importante” non è sempre semplice. Ma perché, mi viene da chiedere, stare insieme, anche quando non c’è di mezzo la disabilità, è forse tutto rose, fiori, cuoricini e tenerezze da S. Valentino?

Un vecchio adagio recita: “Piuttosto che niente, meglio piuttosto“. Quindi, prendiamo il buono (tanto) che c’è in “Diversamente Amore” e speriamo che nei prossimi esperimenti su questo tema si veda sempre più la normalità dei sentimenti, prima che la “diversità” tra le persone che da questi sono unite.

“Non volevo morire vergine”, educazione sentimentale di una “disabilitata”

Tutti abbiamo un elenco più o meno lungo di libri che, per qualche motivo, si sono conquistati un posto speciale nel nostro cuore. In questa speciale categoria, per me, rientra anche “Non volevo morire vergine“, ultimo libro di Barbara Garlaschelli, uscito da un paio di mesi e già diventato (meritatamente!) un piccolo caso letterario.

"Non volevo morire vergine"

Il libro racconta la storia della scrittrice, resa tetraplegica all’età di 15 anni dall’urto contro un sasso mentre si tuffava in mare. Barbara Garlaschelli aveva già raccontato la propria storia in “Sirena (mezzo pesante in movimento)” (titolo che, già da solo, suggerisce il tono autoironico col quale la donna racconta la propria situazione, smussandone così gli aspetti più duri e drammatici). Stavolta, però, la prospettiva è diversa. In “Non volevo morire vergine“, Barbara Garlaschelli condivide coi lettori la propria educazione sentimentale e sessuale, che, subito dopo l’incidente, le era sembrato un capitolo, per forza di cose, destinato a rimanere chiuso ancor prima d’essere veramente aperto.

Pagina dopo pagina, in “Non volevo morire vergine“, seguiamo l’evoluzione di Barbara dalla condizione di “auto-reclusa” nella propria armatura a giovane donna che diventa consapevole del fatto che, nonostante l’incidente e la condizione di “disabilitata” (la definizione è della stessa scrittrice), mantiene la propria femminilità e, con essa, anche la possibilità di piacere, sedurre, suscitare l’interesse, il desiderio e -perché no?- anche l’amore degli uomini. Inizia, così, una serie di relazioni più o meno coinvolgenti (non mancano neanche gli “stronzi” di turno, come nella vita di chiunque, “disabilitato” o meno), fino all’incontro con l’Amore con la A maiuscola.

La verginità della quale Barbara vuole (e riesce) a liberarsi non è solo quella strettamente sessuale, ma ha un senso più ampio:

“Vergine non solo nel corpo, ma di esperienze, di vita, di sbagli, di successi, di fallimenti, di viaggi, di sole”

Il tutto viene raccontato da Barbara Garlaschelli con uno stile leggero, che invoglia alla lettura, ma anche senza troppe censure. Cosa che, a volte, può spiazzare alcuni lettori, nei quali è ancora, più o meno inconsciamente, ben radicato il tabù che vede le persone con disabilità (e, in particolare, le donne) come esseri che, tutt’al più, ispirano pietà, ma di certo non hanno, come dice la scrittrice, “diritto al godimento, fisico e mentale, alle gioie della vita, in tutte le sue declinazioni” (con tutte le implicazioni che ciò comporta, anche nell’attuazione “monca” di politiche serie di accessibilità ed inclusione).

Ciò che ha spinto la scrittrice a condividere una sfera così intima della propria vita attraverso le pagine di “Non volevo morire vergine” non è l’esibizionismo, ma piuttosto la voglia di far passare un messaggio forte, destinato non solo alla società in generale, ma anche alle tante persone che, per propria o altrui volontà, si negano l’amore o anche, semplicemente, il piacere, convinte (magari, non solo da se stesse) di non poterne essere oggetto.

“Balla la mia canzone”: un film su disabilità, autonomia, sentimenti

"Balla la mia canzone"Oggi vi parlerò di un film australiano del 1998, che mi ha fatto conoscere Lorella Ronconi, durante la nostra chiacchierata di qualche tempo fa. “Balla la mia canzone” (titolo originale “Dance me to my song“) è stato realizzato da Rolf de Heer, un regista abituato, attraverso le sue pellicole, a dare voce a chi non ne ha. Il film racconta una storia di fantasia, ma con molti punti di contatto con la vita reale di Heather Rose,  disabile gravissima lei stessa, morta nel 2002 a soli 36 anni, che ha scritto la sceneggiatura e interpretato la protagonista, Julia, affetta da paralisi cerebrale che utilizza un sintetizzatore vocale per comunicare col mondo, la quale, nell’ambito di un progetto che promuove l’autonomia delle persone disabili, esce dall’istituto in cui era ricoverata e va a vivere in un appartamento tutto per sé, con l’aiuto di un’assistente, Madelaine, che la mortifica e le usa violenze di ogni tipo, psicologiche e non solo.Ma la vita di Julia non è fatta di sole ombre. A fare da contraltare a Madelaine, c’è Rix, anche lei assistente di professione, che, a dispetto di un aspetto esteriore che ispira ben poca affidabilità, riesce a sintonizzarsi perfettamente sulle frequenze anche emotive di Julia e, soprattutto, a trattarla con rispetto e, in definitiva, da persona, più che da “paziente”. Ma, soprattutto, c’è Eddie, il vicino di casa di Julia, che, gradualmente, instaura con lei un rapporto che va ben oltre la semplice amicizia, suscitando il risentimento e la crudele vendetta di Madelaine.

“Balla la mia canzone” è un film duro, con immagini forti, che lasciano poco o nulla all’immaginazione. Ma ha anche il merito, non da poco, di mostrare in tutta evidenza come, al di là dell’handicap specifico, le persone con disabilità (anche gravi) restano, in tutto e per tutto, persone come le altre, con gli stessi istinti e desideri. E -sorpresa?- possono anche risultare affascinanti e perfino sessualmente desiderabili agli occhi di persone normali: la scena di Julia e Eddie che fanno l’amore è erotica tanto quanto lo sarebbe se, al posto di un’attrice disabile, ve ne fosse una corrispondente ai canoni classici di bellezza e normalità. Solo la visione miope e condizionata da stereotipi di Madelaine le impedisce di capire che non c’è niente di “malato” in quello che ha visto,  sorprendendo i due.

Un film da vedere, “Balla la mia canzone”, anche per riflettere su un altro tema fondamentale: il diritto delle persone disabili all’autonomia, ad essere non solo “oggetto di cura” ed assistenza materiale, ma anche, e innanzitutto, padrone della propria vita, in ogni aspetto.

“La teoria del volo”: amicizia, amore, sesso e…disabilità

La teoria del volo” (titolo originale “The theory of flight“) è un film inglese del 1998, con due star del calibro di Helena Bonham Carter e Kenneth Branagh nei panni dei protagonisti principali: Jane, giovane donna affetta da una grave malattia neurologica degenerativa, e Richard, artista squattrinato con la mania del volo che finisce, per tutta una serie di circostanze,  per farle da assistente.

la-teoria-del-volo-jane

Il rapporto tra i due si sviluppa, per molti versi, secondo lo schema classico delle commedie romantiche: dopo un inizio contrassegnato da una certa diffidenza (in fondo, Richard deve assistere Jane come pena alternativa per un reato minore, non per propria scelta), i due scoprono di avere in comune molto più di quanto avrebbero pensato. Quello che distingue “La teoria del volo” da molti altri film dedicati al tema della disabilità è l’approccio diretto con il quale viene affrontato un tema che costituisce ancora oggi un tabù per molti: la sessualità delle persone disabili.

“A molte persone non piace camminare accanto a me”

“Già… Perché?”

“Perché implica amicizia”

Jane, infatti, ha un grande rammarico: che la sua malattia si sia aggravata prima che lei potesse vivere la “prima volta”. Sa che non le resta molto tempo da vivere e non vuole morire vergine, perciò chiede a Richard di aiutarla ad esaudire questo desiderio. L’uomo, pur con una certa riluttanza, si lascia convincere. Preparano questo “evento” in tutti i dettagli: una suite in un hotel di lusso, lei vestita e truccata di tutto punto, un gigolò bello e gentile. Ma il tentativo fallisce miseramente: sul più bello, Jane, sopraffatta dall’agitazione, ha una crisi di nervi e Richard, che nel frattempo è accorso in suo aiuto, la porta a casa propria.

la-teoria-del-volo-richard

Qui trova la sua ex, che non crede ai propri occhi e alle proprie orecchie quando, nel presentarle Jane, la definisce “la sua nuova ragazza” e dichiara di essere già stato con lei. Alla fine, i due realizzano i reciproci desideri, insieme: dopo un emozionante quanto breve volo col biplano costruito da lui (da qui il titolo del film), Richard e Jane finiscono realmente col fare l’amore.

la teoria del volo - locandinaLa teoria del volo” è una storia delicata, ma fortemente evocativa, che mostra come, in fin dei conti, i desideri delle persone disabili sono in tutto e per tutto uguali a quelli dei normodotati: amare ed essere amati, come persone, al di là dei propri limiti e difetti (e nonostante questi). Contrariamente a quanto lei stessa credeva, il desiderio di Jane non era tanto quello di vivere un’esperienza sessuale, quanto, piuttosto, di sentirsi amata in quanto donna. Ed è proprio questo che ottiene da Richard, al quale, in cambio, dona la gioia di condividere quella passione a causa della quale tutti lo considerano fuori di testa: il volo, che, in psicologia, è fortemente legato al desiderio di libertà, al superamento degli ostacoli e, per l’appunto, al sesso.

“Io prima di te”: una storia d’amore e disabilità

Ci sono libri che lasciano indifferenti, altri che segnano per qualche tempo, altri ancora che cambiano la vita. A quest’ultima categoria, secondo me, appartiene “Io prima di te” di Jojo Moyes, una storia di amore e disabilità raccontata con delicatezza, ma senza sconti sulla durezza del quotidiano di chi vive la disabilità sulla propria pelle e delle persone che gli stanno accanto, o cercano di farlo.

"Io prima di te"

Io prima di te” ha come protagonisti Will Traynor, giovane manager rampante della City londinese reso tetraplegico da un incidente mentre attraversava la strada, e Louisa Clark, ragazza di provincia che, per una serie di circostanze, viene assunta per fargli da assistente “morale”. I due, apparentemente, non potrebbero essere più diversi. Lui, bello, ricco e di successo, rimpiange una vita vissuta al massimo, nel lavoro, nel tempo libero, nelle relazioni sentimentali e, non riuscendo a rassegnarsi ad averla persa per sempre, ha deciso di porre fine alla propria esistenza in una clinica svizzera. Lei, ragazza della middle class inglese, vissuta sempre nella piccola cittadina che ruota intorno al castello, all’ombra della sorella minore, bella, brillante e idolatrata dai genitori, che, invece, non perdono occasione per rinfacciare a Louisa la propria mediocrità e mancanza di ambizioni.

Eppure, gli ingranaggi del destino li mettono l’uno sulla strada dell’altra, quando i genitori di lui la assumono, nonostante lei manchi totalmente delle qualifiche necessarie per assistere un tetraplegico. Ma il suo ruolo non sarà quello di assistente (per questo, c’è già una persona qualificata), bensì quello di “motivatrice” di Will: da lei ci si aspetta che, con la propria parlantina e con l’entusiasmo, “contagi” l’uomo e lo faccia desistere dai propri propositi suicidi. Sulle prime, il rapporto tra i due è quasi inesistente, tra l’imbarazzo di lei e le frasi sprezzanti e denigratorie di lui. Ma, pian piano, tra loro si crea una complicità che, agli occhi di tutti, va ben oltre la semplice simpatia. Lei arriva anche a convincerlo a fare una vacanza in una località da sogno. Ma, quando tutto sembra ormai orientato al più hollywoodiano degli “happy end“, con i due che si baciano nella cornice romantica di una spiaggia esotica, la realtà ripiomba tra loro con tutto il peso della sua ineluttabilità, fino al finale che non vi svelerò, nel caso in cui non aveste letto il libro.

Will poteva essere felice, se era circondato dalle persone giuste, se gli veniva concesso di essere se stesso, invece dell’Uomo in Carrozzella, nient’altro che una serie di sintomi, oggetto di pietà

Quindi, che cos’è “Io prima di te“? Solo una storia d’amore da romanzo rosa, con in più il “dettaglio” della disabilità di lui? Una storia strappalacrime per chi ha voglia di piangere? No, è molto più di questo: una storia narrata a più voci, per mostrare il punto di vista di tutte le persone coinvolte, da Will e Louisa a Nathan, l’assistente sanitario, ai genitori di Will, alla sorella di Louisa. Una storia che racconta la quotidianità delle persone gravemente disabili, la fatica di convivere con la propria condizione ed accettare di dipendere in tutto e per tutto da altri, la difficoltà ad essere trattate con naturalezza da quelli che, nel romanzo, vengono chiamati “ND” (i normodotati), la paura di lasciarsi andare ai sentimenti e di essere un peso o un limite per i propri cari, compresi gli eventuali partner.

Ed è anche un’occasione per riflettere su un tema ancora tabù: l’eutanasia e il diritto per chi ha una malattia grave ed incurabile di porre fine alle proprie sofferenze in maniera dignitosa. Nelle pagine del romanzo, vengono affrontate le varie sfaccettature della questione, dando peso ai punti di vista dei soggetti coinvolti: il malato, la donna che lo ama, la famiglia, i medici, l’opinione pubblica.

Io prima di te” non è un incitamento a farla finita, a gettare la spugna. Tutt’altro. Ma è, prima di tutto, un’occasione per tutti per conoscere meglio la realtà delle persone disabili, il loro vissuto, le loro paure e i loro desideri. Un’occasione da non perdere anche al cinema, visto che tra pochi giorni uscirà il film. Intanto, io inizio a leggere il seguito!

Sessualità e disabili: un tabù che resiste

Le persone disabili fanno sesso o, semplicemente, sono interessate alla sessualità e ad una vita di coppia come quelle “normali”?  A guardare solo superficialmente la situazione, in Italia e non solo, la risposta a questa domanda sembrerebbe negativa. Ma, in realtà, le cose stanno in maniera “leggermente diversa”.

Lorella Ronconi

Lorella Ronconi (© Maria Vittoria Peccatori)

Ne parliamo con Lorella Ronconi, Cavaliere della Repubblica Italiana in virtù di una vita spesa in prima linea per l’affermazione e la difesa dei diritti delle persone disabili, incluso quello ad affettività e sessualità. Lorella, affetta lei stessa da una disabilità fisica fortemente invalidante, vanta un curriculum ricco di esperienze in associazioni, onlus, istituzioni locali, nella quali ha messo la propria caparbietà tipicamente toscana al servizio dei diritti di chi non ha voce, lottando per l’abbattimento delle barriere architettoniche e culturali che ancora condizionano la vita di milioni di disabili, in Italia e non solo.

– Ciao Lorella e grazie per la tua disponibilità a fare questa chiacchierata. Ti va di presentarti agli amici di Move@bility?

Ho 54 anni, sono toscana e, anche se dall’età di 2 anni convivo con una grave malattia genetica, sono sempre innamorata della vita. Grazie ai miei genitori e ad insegnanti “illuminati”, sono stata tra le prime persone disabili in Italia a frequentare le scuole “normali”.  Il mio carattere e la mia sensibilità verso gli altri mi hanno spinta da sempre ad impegnarmi in prima persona nel sociale. Tra le mie grandi passioni, l’arte, la poesia e il web, in particolare i social media, che considero strumenti essenziali per abbattere le barriere culturali che ancora oggi ghettizzano noi disabili.

– Veniamo subito all’argomento centrale di questo nostro incontro: disabili e sessualità. Perché questo tema è ancora tabù, nel 2016?

Alla base del tabù c’è la visione della persona disabile come “malata”, mentre la disabilità è, innanzitutto, una particolare condizione permanente (fisica o psichica). In genere, quando affronto quest’argomento in contesti pubblici, utilizzo quest’esempio: quando una persona è a letto con l’influenza, è difficile che venga considerata sessualmente desiderabile, ci si limita ad accudirla e curarla perché guarisca. Ecco, agli occhi di chi considera tabù l’accostamento tra disabili e sessualità, è come se noi disabili avessimo perennemente l’influenza: quindi, guai a considerarci sessualmente desiderabili o, men che meno, attivi!  Nella migliore delle ipotesi, ci considereranno eterni bambini, naturalmente privi di pulsioni e desideri sessuali.

– Per le donne disabili (lo sappiamo bene, in quanto entrambe parte della categoria), il tema è ancora più “sensibile”, perché risente dello stesso retaggio culturale che, per secoli, ha visto (e, in alcune culture, vede tuttora) la donna come “oggetto” e non “soggetto” di pulsioni sessuali. Ma è davvero così?

La differente concezione tra i due sessi nasce già tra i “normali”, come dicevi tu. Anche  quando parliamo di sessualità, il pensiero va quasi automaticamente all’uomo disabile, quasi che noi donne non avessimo quest’esigenza. Anche i media contribuiscono a rafforzare questa convinzione: sono ancora troppo pochi, per fare un esempio, i film nei quali la disabilità in tutte le sfaccettature è raccontata “al femminile”. Ma la pulsione sessuale non è una cosa legata al modo di camminare, vedere, sentire: è connaturata al nostro essere umani, senza differenze, se non di carattere “meccanico”, tra i due sessi, indipendentemente dall’eventuale presenza di disabilità.

– Secondo te, l’introduzione della figura dell’assistente sessuale è una soluzione efficace e, se sì, per entrambi i sessi? Risponde anche al naturalissimo bisogno di affettività, oltre a soddisfare delle pulsioni (anch’esse naturali, beninteso)?

Sia che si parli di disabili maschi o femmine, non è sufficiente limitarsi ad introdurre la figura dell’assistente sessuale, per rispondere con un tocco di bacchetta magica alle esigenze delle singole persone, a maggior ragione in una sfera così delicata come quella affettiva e sessuale. La mia impressione è che manchi un chiaro progetto, a livello Italia, su come “disegnare” questa figura, che, per com’è comunemente pensata, risponde sicuramente di più alle esigenze “meccaniche” maschili. Per la donna, il discorso è un po’ più complessa- anche a livello, per l’appunto, “meccanico”- oltre al maggior bisogno di un coinvolgimento affettivo. Sarebbe necessario istituire una figura professionale ben disegnata, che possa rispondere interamente alle esigenze “fisiologiche” ed affettive (a queste ultime risponde, per esempio, la “coccola-terapia”) dei vari disabili, maschi e femmine. Prima dell’assistente sessuale, bisogna formare figure professionali come assistenti sociali, consulenti, psicologi e psichiatri, in modo da dare loro anche una effettiva cognizione dell’esigenza dei disabili di soddisfare bisogni anche di natura sessuale ed affettiva e metterle in condizione di rispondere in maniera efficace  a tali legittime necessità. Invece, oggi, fin troppo spesso si “risolve il problema” prescrivendo pasticche di bromuro (che agiscono solo sull’inibizione della libido) o demandando tutto, ancora una volta, alle famiglie, con implicazioni psicologiche non di poco conto, per genitori che si trovano a dover soddisfare le esigenze “fisiologiche” dei figli anche in una sfera così intima e, quando chiedono aiuto o consigli, si trovano davanti persone impreparate a rispondere in modo efficace.

– Quanto conta la componente affettiva e sentimentale, nella vita sessuale di una persona disabile (indipendentemente dal sesso)?

È essenziale, perché l’amore è vita, per tutti, disabili compresi.

– Immaginiamo una scena: due persone, una disabile e l’altra no, insieme, in atteggiamento, diciamo così, “molto affettuoso”. Nella stragrande maggioranza dei casi, la gente che le guarda pensa che si tratti di persone legate da un vincolo di amicizia, parentela o, al più, di malato/a e badante/assistente. Come convincere quelli che tu hai definito efficacemente “otturati di mente” che si tratta di una situazione del tutto normale?

Siamo in piena era della comunicazione, quindi usiamola! Servono tantissime campagne di sensibilizzazione anche sulla sessualità, aspetto centrale della vita dei disabili, come di tutte le persone. Bisogna “scioccare”, far toccare con mano (o con gli occhi) il fatto che la disabilità non è antitetica al sesso e alle logiche dell’attrazione, anche verso i  “normodotati”.

– Secondo te, cosa si può fare, a livello istituzionale e culturale, per promuovere una cultura di effettiva accettazione della disabilità come condizione non da compatire, ma da considerare assolutamente normale, abbattendo non solo le barriere architettoniche, ma anche (e innanzitutto) quelle culturali?

Metterci la faccia, far vedere che siamo persone e non animaletti malati da accudire. Poi, impegnarci a far rispettare la Convenzione dell’ONU sul diritto alle persone con disabilità (firmata dall’Italia nel 2009) e le leggi esistenti sull’abbattimento delle barriere architettoniche, attraverso lo stanziamento di risorse economiche adeguate. Ma, soprattutto, noi disabili dobbiamo “fare sistema” ed entrare in politica, impegnarci in prima persona, insieme, per arrivare ad un risultato. Solo in Italia, secondo le stime dell’ISTAT, ci sono più di 4 milioni di disabili, più i familiari: dobbiamo “fare rumore”. Non siamo “invisibili” e non dobbiamo esserlo, anche a livello di pubblicità e marketing: a quando un (o una) testimonial disabile nello spot di un brand “figo”?

Non vediamo l’ora! E chissà che… Stay tuned!