Il 27 luglio scorso, ho avuto il piacere e l’onore di partecipare in veste di speaker alla Job Factory organizzata da HRC Digital Generation nell’ambito della terza edizione italiana di Campus Party, un evento globale incentrato su innovazione e creatività e rivolto, principalmente, a giovani, community, università, aziende e istituzioni che, per giorni, hanno la possibilità di confrontarsi e costruire insieme il futuro, utilizzando la tecnologia come strumento per cambiare il domani, in maniera consapevole e responsabile. Il tema dell’edizione 2019, che si è svolta a Milano dal 24 al 27 luglio, è stato “Diventa Div3rso” : qui sotto, una delle immagini utilizzate sui social per pubblicizzare l’evento.
Quale migliore occasione, quindi, per presentare “ufficialmente” Move@bility, parlando in particolare di inclusione lavorativa e, quindi, sociale delle persone con disabilità? Qui sotto, potete vedere la registrazione video del mio intervento, col quale, tra l’altro, inauguro anche il canale YouTube di Move@bility.
È stato davvero emozionante ed arricchente poter incontrare a Campus Party un pubblico di giovani interessati, che hanno ascoltato con attenzione il mio intervento e condiviso il proprio punto di vista su un tema centrale, ma ancora spesso trascurato anche quando si parla di diversity. Spero di essere riuscita a trasmettere loro l’idea che, poi, è alla base anche di Move@bility: al di là delle rispettive diversità e specificità, siamo tutti persone e, come tali, abbiamo la stessa dignità, gli stessi diritti e, ovviamente, gli stessi doveri. E non solo in ambito lavorativo.
Curiosi di vedere per intero la presentazione che ho condiviso in occasione di Campus Party? Eccovi accontentati! 🙂
Spero di avere altre occasioni per confrontarmi su questi temi con un pubblico “misto”, non necessariamente costituito da persone direttamente interessate. Perché credo che una vera “cultura della disabilità” possa affermarsi solo coinvolgendo la società nel suo complesso, non limitandosi a guardare al proprio “orticello”. Voi che ne pensate?
Abbiamo sottolineato più volte quanto sia importante, per l’inclusione delle persone con disabilità, l’incremento di soluzioni che garantiscono un turismo accessibile. In questa direzione va anche il portale AT Campania, presentato nei giorni scorsi a Napoli dal Rotary Club insieme all’Unione Italiana Ciechi.
L’obiettivo del portale AT Campania è raccogliere le soluzioni di turismo accessibile già presenti nella regione e contribuire, insieme ad una serie d’iniziative collaterali (seminari, convegni, eventi dedicati al tema del turismo accessibile) a sensibilizzare gli operatori del settore e tutta la comunità sulla necessità di andare verso un mondo che sia effettivamente alla portata di tutti, indipendentemente da eventuali disabilità.
Napoli
Il potale AT Campania non si limita a raccogliere le informazioni sull’accessibilità di strutture e servizi turistici della regione (musei, ristoranti, monumenti, etc.), ma consente anche agli utenti, registrandosi gratuitamente, di lasciare recensioni pubbliche sulle strutture presenti, in modo da condividere con gli altri visitatori del sito la propria esperienza diretta.
Amalfi
Le strutture ricettive avranno, così, la possibilità di far conoscere la propria offerta di turismo accessibile ad una platea più ampia, includendo anche quella porzione di turisti che, troppo spesso, viene ancora ignorata dal mercato, a causa del persistere di pregiudizi e barriere architettoniche e culturali.
Sorrento, Villa Cimbrone
I motivi per visitare la Campania non mancano: il patrimonio culturale, archeologico e paesaggistico di questa regione è vastissimo e in grado di soddisfare le esigenze e i gusti di tutti. Poterselo godere senza preoccuparsi dell’accessibilità è sicuramente fondamentale, per vivere una vacanza serena.
Vesuvio
AT Campania è appena partito, ma i presupposti per farlo crescere e diventare un punto di riferimento per il turismo campano ci sono tutti, a partire dalla determinazione dei suoi promotori. Create subito il vostro account sul sito e condividete le vostre esperienze: un mondo più accessibile a tutti è possibile, se ciascuno di noi fa la propria parte!
Verona: la città di Romeo e Giulietta, affascinante, ricca di arte, storia e magia. Pensate che bello girare per le sue strade, assaporarne la bellezza, concedersi una pausa in un bar o fare shopping nei negozi del centro… Ma Verona è accessibile per chi ha problemi di mobilità? A questa domanda hanno provato a rispondere Alessia Bottone e Valentina Bazzani, rispettivamente autrice/regista e protagonista “seduta” del documentario “Vorrei ma non posso: quando le barriere architettoniche limitano i sogni“, che descrive una giornata di Valentina, giornalista con disabilità, in giro per la sua città, Verona per l’appunto, tra barriere architettoniche e non solo.
“Vorrei ma non posso” è stato presentato a settembre e visto da migliaia di persone, me compresa. Visto che l’ho trovato decisamente interessante, ho deciso di mettermi in contatto con Alessia e Valentina per farmi raccontare direttamente da loro com’è nato questo interessante (ed utilissimo!) progetto.
-Com’è nata l’idea di “Vorrei ma non posso”?
Alessia Bottone
ALESSIA – Mi occupo da tempo, anche per lavoro, di diritti umani ed esperienze familiari mi hanno portato ad essere particolarmente sensibile a temi quali autonomia e accessibilità riferiti alle persone con disabilità. Due anni fa, ho presentato una bozza del documentario al premio per Giovani Giornalisti Massimiliano Goattin, ottenendo un finanziamento che mi ha consentito di passare all’azione. Nel frattempo, ero entrata in contatto, attraverso Facebook, con Valentina, leggendo un suo post sull’ennesima discriminazione in ambito lavorativo che lei aveva subito. Dal virtuale, siamo presto passate al reale (viviamo entrambe a Verona e questo ci ha facilitato le cose) e abbiamo iniziato a girare il documentario, con la collaborazione di Elettra Bertucco, che ha realizzato le riprese.
-Qual è stata la difficoltà più grossa che avete dovuto affrontare durante la realizzazione di “Vorrei ma non posso”?
Valentina Bazzani
VALENTINA – Barriere architettoniche di ogni tipo: dai gradini che, per chi come me si muove su una sedia a rotelle e ha un’autonomia molto limitata, rappresentano un limite spesso insuperabile, alla mancanza di scivoli sui marciapiedi o di pedane (anche rimovibili) per accedere a negozi ed esercizi pubblici. Per non parlare, all’interno dei negozi d’abbigliamento, della mancanza di camerini con porte scorrevoli, che, di fatto, obbligano chi è su una sedia a rotelle a provare i vestiti davanti a tutti, con buona pace della privacy… Ma, soprattutto, le barriere culturali: stereotipi e cliché sulle persone con disabilità sono ancora troppo radicati nel nostro Paese. Il nostro sogno è quello di una vita alla pari, perciò a tutti vanno garantiti gli stessi diritti ed opportunità, perché ciascuno possa mostrare risorse, peculiarità e potenzialità. Purtroppo, in questo momento, non è così.
-Com’è stato accolto “Vorrei ma non posso”? Come reagiva la gente, mentre giravate?
A. – Durante le riprese, per non condizionarle, non abbiamo fatto riferimento al documentario con le persone coinvolte. Ovviamente, ne abbiamo pixelato i volti, per rispettarne la privacy. Per il documentario c’è stata un’accoglienza che, francamente, mi ha sorpresa: in genere, quando si affrontano questi temi, ci si ritrova (purtroppo) in pochi. Invece, sia durante la presentazione che in questi mesi, abbiamo notato un grande interesse verso il tema che abbiamo affrontato: segno che qualcosa si sta muovendo nella direzione giusta?
-Cosa manca ancora per raggiungere la piena accessibilità, vale a dire spazi urbani pensati per adattarsi alle esigenze di tutti i cittadini (inclusi quelli con disabilità motorie – su sedia a rotelle e non- o sensoriali)?
V. – In questo momento, per arrivare alla piena accessibilità manca, da una parte, il buon senso anche durante la fase della progettazione, lo sforzo di pensare agli spazi anche nell’ottica delle persone con disabilità o, ove possibile, di coinvolgerle direttamente. Ma anche la volontà, da parte delle istituzioni, di creare ambienti veramente accessibili a tutti, almeno negli spazi pubblici. Molto è stato fatto, ma molto resta da fare. Come persone con disabilità, possiamo continuare a sensibilizzare e diventare “protagonisti attivi”, mostrando che, con il nostro impegno e le nostre risorse, possiamo fare una vita normale. Non è semplice, soprattutto quando, a causa della propria condizione, si dipende dall’aiuto altrui. Ma è necessario.
-Cos’è cambiato dopo l’uscita del documentario, a Verona?
A. – Verona è stata una delle prime città italiane ad adottare il PEBA, il Piano per l’Eliminazione delle Barriere Architettoniche. Certo, il passaggio dagli intenti all’applicazione pratica è più lento di quanto vorremmo e le ambiguità normative non aiutano: per esempio, il paradosso per cui, per dotare il proprio esercizio commerciale di pedana rimovibile si debba pagare una tassa per occupazione di suolo pubblico è, quanto meno, un controsenso, no?
-Quanto incidono le problematiche legate all’accessibilità sulla piena inclusione (sociale e lavorativa) delle persone con disabilità?
V. – Alle superiori, pur essendo più portata per le materie scientifiche, ho scelto un istituto tecnico perché era l’unico accessibile. Negli anni, le cose sono migliorate: la società è più inclusiva e c’è anche una crescente attenzione per gli spazi, perché siano accessibili e accoglienti. La difficoltà maggiore è ancora, prevalentemente, culturale: non è accettabile, nel 2017, che una persona con disabilità, professionista con un curriculum di tutto rispetto, sostenga infiniti colloqui e venga scartata solo a causa della propria disabilità! Tante sono state le battaglie per condurre una vita normale, studiare, laurearmi con il massimo dei voti, fare esperienze lavorative (a titolo gratuito) e poi mi vedo scartata? No, non ci sto. È veramente possibile una vita alla pari, piena e meravigliosa. Ma è necessario che istituzioni, associazioni facciano rete e facciano cultura, per creare una società veramente inclusiva.
Alessia e Valentina alla presentazione di “Vorrei ma non posso”
Grazie mille a queste due splendide donne per aver riacceso i riflettori su un tema per il quale non si fa ancora abbastanza per tradurre in pratica le intenzioni. Speriamo di vedere presto il sequel di “Vorrei ma non posso”. Magari, stavolta, dal titolo: “Vorrei…e posso!”
I concetti di “inclusione” e “accessibilità“, per come le intendo io, non si applicano soltanto agli spostamenti, all’eliminazione delle barriere architettoniche, all’accesso al lavoro. Tutti ambiti importantissimi, anzi fondamentali per una buona qualità della vita. Ma non è meno importante, come abbiamo avuto modo di sottolineare in varie occasioni, la possibilità di vivere pienamente anche un aspetto troppo spesso sottovalutato (quando non del tutto trascurato) della vita di tutte le persone, comprese quelle con una disabilità di qualsiasi tipo: l’affettività in tutte le sue sfaccettature. Proprio a questo tema è stata dedicata “Diversamente Amore“, la trasmissione tv trasmessa nei giorni scorsi su Rai2 (e, ancora per qualche giorno, visibile gratuitamente su Raiplay.it), condotta- o, meglio, raccontata- dalla campionessa paralimpica Bebe Vio.
“Diversamente Amore” è il racconto, fatto direttamente dalla viva voce dei protagonisti, delle storie d’amore di cinque coppie “diverse”, vale a dire con almeno uno dei componenti affetto da una qualche forma di disabilità. Dal racconto della quotidianità delle coppie emerge, sostanzialmente, un messaggio di fondo: al di là delle condizioni specifiche delle persone (e delle esigenze particolari che ne derivano), una persona con disabilità (di qualsiasi tipo) può amare ed essere amata esattamente come chiunque altro. Le limitazioni imposte dalla condizione di disabilità non implicano , di per sé, l’impossibilità di amare, né, men che meno, quella di essere amate… anche da persone perfettamente “normali”.
Bella idea, quella alla base di “Diversamente Amore“, sicuramente. In un contesto sociale nel quale, nonostante i progressi fatti negli ultimi decenni, è ancora la norma, per le persone con una disabilità visibile, sentirsi “gli occhi addosso” (e non certo per ammirazione…), essere considerate, alternativamente, “sventurate” da compatire (quando non da evitare o, in casi estremi, su cui accanirsi e sfogare gli istinti più beceri, come ci ricordano vari tristissimi episodi di cronaca) o “eroine” delle quali esaltare il “coraggio” e la “forza”, qualsiasi cosa che serva a ricordare che anche chi ha una disabilità, al di là dei propri problemi specifici, affronta le stesse situazioni di tutti (problemi sul lavoro, storie d’amore più o meno felici, piccole-grandi difficoltà quotidiane, etc.) è benvenuta. Anche il tono dei racconti è riuscito ad evitare (quasi sempre) il pietismo, che troppo spesso è la cifra stilistica di questi esperimenti.
Tuttavia… Non so a voi, ma, a me, guardando la trasmissione, è sembrato che mancasse qualcosa. Cosa? Beh, certamente scegliere solo cinque storie che fossero rappresentative del multi-sfaccettato mondo delle disabilità non era impresa semplice. Ma, salvo alcune differenze secondarie, le situazioni e le problematiche quotidiane narrate in almeno un paio di storie erano molto simili, per non dire quasi sovrapponibili. Sarà che sono parte in causa, ma sarebbe stato bello vedere storie anche diverse dallo stereotipo- durissimo a morire- “disabilità motoria = sedia a rotelle”. Inoltre, mi è sembrato che, anche in questo caso, si sottolineasse fin troppo l’aspetto “eroico” della situazione delle coppie, il “coraggio” di mettersi e stare insieme, sia rispetto alla parte “diversa” delle coppie che a quella “normale”. È vero: stare insieme ad una persona con una disabilità “importante” non è sempre semplice. Ma perché, mi viene da chiedere, stare insieme, anche quando non c’è di mezzo la disabilità, è forse tutto rose, fiori, cuoricini e tenerezze da S. Valentino?
Un vecchio adagio recita: “Piuttosto che niente, meglio piuttosto“. Quindi, prendiamo il buono (tanto) che c’è in “Diversamente Amore” e speriamo che nei prossimi esperimenti su questo tema si veda sempre più la normalità dei sentimenti, prima che la “diversità” tra le persone che da questi sono unite.
Abbiamo già parlato tempo fa di quanto importante possa essere lo sportper chi convive con una disabilità, non solo come hobby, ma come mezzo per superare le barriere culturali e facilitare l’effettiva ed efficace inclusione sociale. Anche le Paralimpiadi di Rio dell’anno scorso hanno rappresentato un momento importante, in tal senso, dimostrando (se mai ve ne fosse bisogno) che anche chi ha una disabilità può essere un asso nello sport, se messo nelle giuste condizioni. Su questo principio si basa OSO – Ogni Sport Oltre, il progetto lanciato dalla Fondazione Vodafone Italia per promuovere e sostenere progetti ed iniziative che, attraverso lo sport, favoriscono l’inclusione delle persone con disabilità nel tessuto sociale.
Come ribadisce a più riprese il video ufficiale dell’iniziativa, la “parola d’ordine” di OSO è “Cambia la tua storia. Disabilita i tuoi limiti“, perché, come dimostrano anche le storie di molti volti noti (da Bebe Vio ad Alex Zanardi, e non solo) coinvolti nell’iniziativa, la differenza la fa anche il nostro atteggiamento, il modo in cui guardiamo alla nostra stessa condizione di disabilità e la decisione di “non lasciarla vincere” e trovare, comunque, il modo di vivere le nostre passioni (sportive e non solo) con qualche “aggiustamento”, ma con la stessa intensità degli altri.
Come dite? Tutto vero e giusto, ma passare alla pratica è spesso difficile, se non impossibile, in primis perché non è facile reperire le informazioni su ciò che già c’è, magari anche a pochi km da casa nostra? Anche per questo è stato creato il sito OSO, sul quale non si trovano soltanto le storie di “chi ce l’ha fatta” o i nuovi progetti da finanziare (anche attraverso il crowdfunding), ma anche informazioni e una mappa per ricercare le strutture sportive più vicine a voi.
Insomma, non ci sono più scuse: pronti a “disabilitare i nostri limiti”?
*Immagini tratte dal sito ufficiale di OSO – Ogni Sport Oltre
Nei giorni scorsi, ho avuto modo di vedere le prime due puntate di “Speechless“, serie tv andata in onda nei mesi scorsi negli USA e ora approdata in Italia (la trasmette Fox sulla piattaforma Sky ogni venerdì sera). Si tratta di una comedy, ma con un particolare non da poco: per la prima volta in questo genere televisivo, il protagonista principale è un ragazzo con disabilità (per chi, come me, è cresciuto negli anni ’80-’90, c’era stato il precedente di “Una famiglia come tante“, che vedeva tra i membri della famiglia Corky, un ragazzo con sindrome di Down, ma il genere era decisamente diverso). Il protagonista, infatti, è JJ DiMeo, un adolescente affetto da una paralisi cerebrale, che lo costringe su sedia a rotelle e gl’impedisce di parlare (da qui il titolo della serie, che, letteralmente, vuol dire “senza parole”) se non con l’aiuto di un dispositivo dotato di tastiera e puntatore laser per scegliere numeri e lettere e, quindi, comunicare con gli altri.
Ci sarebbero tutti i presupposti per una storia triste e strappalacrime. Ma “Speechless” è tutt’altro: si ride spesso, e anche di gusto. La “diversità” di JJ e le difficoltà quotidiane (memorabile la lotta della super-combattiva madre, Maya, per garantire al figlio l’accesso a scuola dall’ingresso principale e non da quello riservato all’immondizia, nella prima puntata della serie) non vengono nascoste, né sottovalutate. Ma, in primo luogo, dalla serie emerge il racconto della “normalità” di JJ e della sua famiglia. Sì, JJ è malato, ha difficoltà evidenti e, per fare cose che tutti riteniamo scontate, ha bisogno dell’aiuto dei familiari e dell’improbabile (ma spassosissimo) assistente-custode scolastico Kenneth. Ma questo non lo rende inferiore agli altri, grazie al suo humour pungente e alla brillante intelligenza.
Ma la cosa che più mi è piaciuta di “Speechless” è che, contrariamente a quanto si tende a fare spesso in tv o al cinema raccontando la disabilità, qui non s’indulge all’esaltazione della “superiorità” del diverso. Intendiamoci: all’arrivo nella nuova scuola, docenti e compagni provano ad accogliere JJ all’insegna del più classico politically correct, tributandogli un’ovazione immotivata (che lascia il ragazzo alquanto perplesso). Ma, appunto, la reazione sua e dei suoi familiari (personaggi alquanto “pittoreschi”, ma a cui ci si affeziona facilmente) spiazza tutti, facendo capire che, forse, è il caso di cambiare atteggiamento.
Il cast di “Speechless”
Guardando “Speechless, si finisce per non fare quasi caso alla sedia a rotelle e al dispositivo di JJ, presi come si è dalle battute fulminanti che si scambiano i vari personaggi e, tutto sommato, dalla “normalità” che ne emerge. In definitiva, come comprende subito Kenneth, JJ è un adolescente come tutti gli altri, in tutto e per tutto. La sua disabilità è solo una condizione come un’altra, non uno stigma.
Fateci caso: il più delle volte, quando media e politica affrontano il tema della disabilità, l’accento viene posto, essenzialmente, su due aspetti, spesso contrapposti. Da un lato, l’assistenzialismo associato al pietismo (“Poverini, bisogna aiutarli!“); dall’altro quella che io chiamo la “retorica dell’eroe“, che porta a descrivere e rappresentare le persone con disabilità come necessariamente forti e piene di volontà, un “esempio” per tutti. Niente di male, in questo, intendiamoci: in fondo, vi sono condizioni nelle quali l’assistenza è un requisito indispensabile e, quanto al secondo punto, è spesso vero che, per affrontare una disabilità e non restarsene in un angolo a piangere sulla propria sventura, è necessario trovare in sé risorse anche caratteriali non indifferenti. Anche in questo spazio abbiamo spesso parlato di “modelli” come, per esempio, gli atleti paralimpici.
Ma proviamo, per una volta, a guardare le cose da un punto di vista diverso. Fatti salvi i casi in cui la condizione di disabilità è tale da non consentire alla persona di provvedere a se stessa e alle proprie necessità primarie, lavorare, avere una vita sociale, perché non porre l’accento, più sull’assistenzialismo, sulla creazione di condizioni favorevoli all’autonomia delle persone con disabilità? Per dirla prendendo in prestito un’espressione molto in voga, perché, oltre al “dopo di noi” (tema sacrosanto, per carità), non pensare innanzitutto al “durante loro“, vale a dire porre al centro delle politiche messe in atto (e dei messaggi veicolati dai mass media) il vissuto, le esigenze e le legittime aspettative delle persone con disabilità? In fondo, è proprio questo il senso della Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità:porre l’accento sulle persone, più che sulle loro condizioni di disabilità. Perché, è bene ricordarlo, una delle difficoltà maggiori nell’affrontare il tema della disabilità è proprio il fatto che non esista una disabilità, ma tante disabilità e anche persone con disabilità simili possono avere esigenze molto diverse tra loro.
Ben vengano le strutture che assistono le persone non più autonome o non autosufficienti: è giusto che esistano e non ve ne sono ancora a sufficienza, soprattutto se pensiamo che l’età media nel nostro Paese si sta alzando ed è risaputo che, spesso, vecchiaia e disabilità sono associate. Però, questo non è sufficiente a dire che “si è affrontato il problema della disabilità“. Una larghissima fetta dei 4 milioni e passa di persone con disabilità è costituita da individui che, per condizione ed età, sono perfettamente in grado di essere autonomi, produttivi, membri attivi della società e non semplicemente “pesi morti” o “problemi” da risolvere in qualche modo (magari, nascondendoli in strutture “dedicate”). Si fa abbastanza per rispondere alle legittime aspettative di queste persone con politiche efficaci mirate all’inclusione (scolastica, lavorativa, ma anche sociale tout court, come non ci stanchiamo di ribadire in questo spazio), che vadano oltre il mero assistenzialismo? Certo, è importante che esistano assegni d’invalidità e simili, ma è ancor più importante consentire a chi ne ha tutte le possibilità (nonostante la disabilità) di lavorare, muoversi, viaggiare, rimuovendo le barriere architettoniche e culturali.
Solo così potremo davvero essere e sentirci persone, prima che “poveri cristi” ai quali elargire elemosine (non solo in termini di denaro, assistenza, ma anche di attenzione, tempo, affetto, amicizia, amore, etc.) dall’alto. E questo sarebbe un vantaggio anche economico per la collettività.
Nei giorni scorsi, con l’approvazione (per adesso, solo al Senato, in attesa che si pronunci la Camera dei Deputati) del cosiddetto “Decreto Milleproroghe“, un’autentica doccia gelata si è abbattuta sulle speranze di più di 70.000 persone con disabilità di riuscire a vedere, finalmente, riconosciuto (seppure con l’aiuto di un’ulteriore legge) un diritto che, per tutti, è sancito dall’articolo 4 della nostra Costituzione: il diritto al lavoro.
La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto. Ogni cittadino ha il dovere di svolgere, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che concorra al progresso materiale o spirituale della società
Infatti, se fosse approvato anche dalla Camera, il Decreto Milleproroghe farebbe slittare al 1° gennaio 2018 l’entrata in vigore, per le aziende con più di 15 dipendenti, dell’obbligo di assumere (indipendentemente dalla volontà o necessità di effettuare nuove assunzioni) lavoratori con disabilità, per non incorrere nelle relative sanzioni, introdotte col Jobs Act. Rimarrebbe, naturalmente (e fortunatamente!) l’obbligo di assumerli nelle quote previste in caso di nuove assunzioni. Ma resta il fatto che, con l’eventuale (ennesimo) slittamento di un obbligo più stringente, si porrebbe un altro ostacolo (anche in questo caso, l’ennesimo) all’effettiva inclusione delle persone con disabilità nel mondo del lavoro, con le ovvie ricadute sul loro riconoscimento come membri a pieno titolo della società.
Esistono aziende che, trovandosi nella necessità di assumere nuovi lavoratori, non si fanno condizionare dall’eventuale disabilità, ma scelgono la persona in virtù delle sue competenze o esperienze, valorizzandola e consentendole di dare un fattivo contributo all’attività e alla crescita dell’azienda stessa. Ma queste rappresentano ancora delle sporadiche, per quanto lodevolissime, eccezioni, a fronte di tante altre che, pur di non assumere il (supposto) “peso morto” (il pregiudizio secondo il quale la “categoria protetta” lavora poco ed è “sempre in malattia” è duro a morire…), pagano la multa o di quelle che assumono le “categorie protette” (niente da fare: questa dicitura non riesco proprio a farmela piacere…), anche qualificate, per poi destinarle a mansioni poco rilevanti o ostacolarne, di fatto, la crescita professionale e la carriera.
Mi è capitato spesso, negli anni, di essere contattata da aziende o società di selezione che mi offrivano un lavoro in quanto “categoria protetta”, senza prestare la minima attenzione al mio curriculum (non esattamente privo né di titoli, né di esperienze qualificate, per mia fortuna). Alla mia obiezione “Ma ha letto il mio curriculum?”, la risposta è, più o meno, sempre la stessa: “Eh… ma cercano una categoria protetta… e Lei lo è”. Come a dire: “Ti sto offrendo un lavoro, e ti lamenti pure?”. La cosa triste è che questo atteggiamento, spesso, si riscontra anche nelle associazioni o negli organismi che dovrebbero tutelare il diritto al lavoro (e alle pari opportunità anche in quell’ambito) delle persone con disabilità: “Ti hanno offerto/Hai un lavoro, che vuoi di più? Pensa a chi non ce l’ha!”.
Ecco, questi atteggiamenti non si modificano o cancellano certamente solo a colpi di legge. Serve –come ha evidenziato anche Daniele Regolo, founder di Jobmetoo- lavorare molto sulla cultura della disabilità, far arrivare ovunque il messaggio secondo il quale la condizione di disabilità non è, di per sé, incompatibile con la possibilità di lavorare, anche ricoprendo ruoli di responsabilità (dove sta scritto che la persona con disabilità non può fare carriera?). Ma, nell’attesa che il lavoro anche su questo (enorme) fronte produca i propri frutti, è necessario che sia la legge a garantire questo diritto (non “gentile concessione”). E il Decreto Milleproroghe non va certo in questa direzione.
Una come me, amante della lettura e della Spagna (in particolare, di Barcellona e del suo fascino magnetico), poteva forse lasciarsi sfuggire l’ultimo romanzo del ciclo del “Cimitero dei Libri Dimenticati” del bravissimo Carlos Ruiz Zafón? Ovviamente no! E, allora, eccomi a parlarvi de “Il Labirinto degli Spiriti“… Pronti?
Se conoscete un po’ la storia narrata nei primi tre romanzi del ciclo, vi starete chiedendo, magari, perché ne parli su un sito dedicato principalmente al tema della disabilità. La risposta è semplice: Alicia Gris, la co-protagonista (insieme alla famiglia Sempere e agli altri personaggi già visti negli altri romanzi) de “Il Labirinto degli Spiriti”, ha, per l’appunto, una disabilità, che le deriva da una ferita alla gamba che si è procurata da bambina, mentre Barcellona era sottoposta ai bombardamenti, e che le provoca dolori lancinanti e la costringe ad indossare una specie di tutore. Ci sarebbero tutti gli elementi per farne un personaggio quasi patetico, ancor più nella Spagna franchista, a cavallo tra gli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso. Invece, Alicia è tutt’altro che una “fragile donnetta”.
Personaggio segnato dalle avversità della vita, che l’hanno costretta ad entrare fin da giovanissima in stretto contatto con le manifestazioni più “nere” dell’animo umano (lavorando agli ordini del controverso Leandro Montalvo), Alicia è una “dark lady” ante litteram, che affronta il mondo indossando una maschera di freddezza ed invulnerabilità, convinta com’è di non poter meritare l’amore di nessuno (perché, in fondo, è lei per prima a non riuscire ad amarsi) e che, quando incontra persone alle quali si sente, suo malgrado, legata, la cosa migliore che possa fare per loro sia allontanarsene, per non esporle al baratro col quale lei ha, giocoforza, imparato a convivere. Nonostante ciò, Alicia è anche una donna che non rinuncia a sentirsi tale e ad esserlo fino in fondo anche nel presentarsi agli altri, sempre vestita con abiti ed accessori costosi e ricercati, truccata e pettinata di tutto punto….e armata di pistola, ovviamente, oltre che del proprio istinto che non sbaglia un colpo e che l’aiuta a cavarsi fuori anche dalle situazioni più intricate.
Ne “Il Labirinto degli Spiriti” non manca il racconto (delicato quanto realistico) della fragilità, anche fisica, di Alicia, del dolore fisico con il quale convive cercando di non cedere alla facile tentazione di metterlo a tacere imbottendosi di farmaci. Ma quello è solo un aspetto del personaggio, del quale si sottolineano prevalentemente la forza d’animo, la scaltrezza, le capacità seduttive e l’avvenenza. Non capita tutti i giorni di sentir parlare in questi termini di una persona con disabilità, vero?
Un assioma è un principio “evidente di per sé” e che, quindi, non ha bisogno d’essere dimostrato. E proprio a questo concetto rimanda “Axioma“, il titolo del cortometraggio dedicato al racconto della disabilità e delle implicazioni, pratiche e di carattere psicologico, che questa condizione ha su chi la vive. A produrlo è Village For All, che da anni s’impegna a garantire a ciascuno la sua vacanza, come recita la sua mission.
L’assioma, in questo caso, è la storia del protagonista di “Axioma” e della sua vita “prima” e “dopo” l’incidente che gli ha tolto la possibilità di camminare. Il film racconta il vissuto del protagonista, il suo sentirsi inizialmente un peso per i propri cari e per la società tutta, tanto da arrivare a decidere di “autorecludersi”, per poi giungere, gradualmente, alla consapevolezza che, nonostante le apparenze, non tutto è perduto e anche a lui, come a ciascun individuo, è concessa la possibilità di “rinascere”.
Il racconto di “Axioma” parte dal presupposto che la disabilità non è un tema che riguarda solo pochi “sfortunati”, ma, in qualche modo, tocca chiunque, contrariamente a quanto la nostra cultura tende a farci pensare, in genere. Il film non vuole dare voce solo ai “disabili in senso stretto”, vale a dire a coloro che hanno una disabilità fisica o psichica, ma anche a quanti sono emarginati, vittime di violenza o di bullismo. L’obiettivo è, come dice lo spot che lancia il progetto, quello di “infrangere la barriera del pregiudizio e confinare in una stanza senza porte e finestre un sempre più inutile buonismo per sostituirlo con la coerenza di pensiero ed azione“, puntando invece sull’uguaglianza, da raggiungere attraverso amore ed amicizia, in un percorso sostenibile per ciascun individuo.
Ma, si sa, realizzare un film, promuoverlo e distribuirlo nelle sale cinematografiche (per quanto “corto”) costa. Per questo motivo, Village For All ha lanciato una campagna di crowdfunding, che si chiuderà all’inizio di marzo: per contribuire alla realizzazione del cortometraggio, è possibile donare anche un solo euro. Ma, ovviamente, non è vietato donare di più!
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