Fine anno: tempo di bilanci e speranze

Mancano ormai pochissimi giorni alla fine del 2016 e fervono un po’ ovunque i preparativi per i festeggiamenti per accogliere al meglio il 2017. E, come ogni fine anno che si rispetti, si tirano le somme dell’anno che sta per concludersi e si fanno progetti, si formulano propositi, si esprimono desideri per quello che sta per iniziare.

Andiamo con ordine e partiamo dai bilanci, ovviamente sempre dal punto di vista dell’accessibilità e della cultura della disabilità in generale. Che anno è stato, questo 2016? Un anno in chiaro-scuro, con qualche luce e ancora troppe ombre. Tra le prime, per esempio, l’approvazione della legge sul “dopo di noi, pur con tutti i suoi limiti, l’incremento (anche in Italia) delle iniziative di turismo accessibile e, sui media, maggiore attenzione all’accessibilità del webspot, film e serie TV che restituiscono una visione nuova della disabilità, più attenta alla dignità personale che alla malattia in sé, senza dimenticare il grande successo delle Paralimpiadi di Rio. E, last but not least, permettetemi un riferimento più “personale”: in questo 2016, ho lanciato, finalmente, questo progetto che, pur con pochi mesi di vita all’attivo, mi ha già permesso di conoscere realtà, persone e progetti che vogliono davvero, se non rivoluzionare, almeno migliorare la vita delle persone con disabilità.

nuovo anno

Ma, dicevamo, in questa fine anno, non possiamo non vedere le tante ombre che ancora offuscano il cielo sopra alle persone con disabilità: il lavoro che, nonostante le leggi e gli incentivi, continua ad essere un tasto dolente, le barriere architettoniche e culturali che ancora condizionano eccessivamente la vita di chi fa i conti con la disabilità, anche sul piano relazionale.

Apriamo, quindi, il capitolo “Propositi e desideri per il 2017“: cosa mi auguro, per questo nuovo anno, per me e per tutti coloro che convivono con una disabilità, motoria, sensoriale o intellettiva che sia? Ecco la mia personalissima “lista dei desideri“:

  1. Città e paesi più accessibili e attenti alle esigenze di tutti, non solo in occasione di “eventi speciali”, e non solo in Italia o all’estero
  2. Maggiori opportunità di lavoro qualificato per le persone con disabilità, senza pregiudizi su capacità, competenze e produttività
  3. Una società più aperta all’inclusione delle persone con disabilità, in ogni ambito, non escluso quello affettivo e relazionale in genere, perché anche noi persone con disabilità usciamo, ci divertiamo, c’innamoriamo (e non necessariamente e non solo “tra di noi”)!

Affinché si realizzino, però, non è sufficiente l’azione dei singoli: dovremo tutti “fare sistema“, lavorare insieme per esigere ciò che ci spetta di diritto, senza accontentarci di riceverlo “per gentile concessione”. Perché è sicuramente importante pensare a come aiutare le persone con disabilità non autosufficienti che non possano contare sul sostegno dei familiari, ma non lo è meno mettere in atto accorgimenti e misure che migliorino l’autonomia e salvaguardino la dignità personale di chi vive con una disabilità.

E i vostri, di desideri, per il nuovo anno, quali sono? Vi va di condividerli nei commenti?

“The elephant man”: la disabilità nella Londra vittoriana

Proseguiamo la rassegna dei film che hanno affrontato il tema della diversità e, in particolare, della disabilità con un classico girato nel 1980 da uno dei miei registi preferiti: il bellissimo “The elephant man“, di David Lynch, ispirato alla vicenda di Joseph Merrick (ribattezzato John), un uomo affetto dalla rarissima sindrome di Proteo, che aveva gravemente alterato le fattezze del suo volto e del suo corpo. Nel film come nella vita reale dell’uomo, Merrick viene scoperto per caso da un celebre medico durante uno spettacolo, nel quale veniva esposto come un fenomeno da baraccone, utilizzando la sua “mostruosità” per arricchirne lo spietato sfruttatore. Il medico lo porta con sé e, gradualmente, lo aiuta ad inserirsi nella società, restituendogli la dignità umana che, fino a quel momento, gli era stata negata e permettendo alla gente di scoprire, oltre il “mostro”, un uomo sensibile e colto.

"The Elephant Man"

Naturalmente, la sua storia si diffonde rapidamente per tutta Londra, arrivando perfino alle orecchie della stessa regina Vittoria, che, impietosita dalla vicenda, apre un fondo per finanziarne le cure mediche. Tutto bene, quindi? Neanche per sogno! Il suo aguzzino riesce a trovarlo e rapirlo, tornando a sfruttarlo nel proprio circo di “freak“, ma sono proprio gli altri “fenomeni da baraccone” ad aiutarlo a fuggire e tornare a Londra. Qui, ha luogo la scena più commovente di tutto il film: alla stazione, Merrick, mentre corre per sfuggire alle angherie di un gruppo di ragazzini, urta accidentalmente una bambina e rischia, per questo, il linciaggio da parte della folla. Ma l’uomo, per fermarli, urla: “Non sono un elefante! Io non sono un animale! Sono un essere umano!“. Finalmente al sicuro, affidato nuovamente alle cure del medico che l’aveva già aiutato, Merrick ha un altro “momento di gloria”, assistendo ad una rappresentazione teatrale durante la quale gli viene tributata un’ovazione. Tornato in ospedale, l’uomo muore, finalmente in pace e con il cuore scaldato dalla consapevolezza di aver avuto, in vita, almeno un amico: il medico.

The elephant man” non è un racconto strappalacrime che indulge al pietismo. Tutt’altro! David Lynch, col suo stile asciutto ed essenziale, riesce a far percepire come, andando oltre l’apparenza dell’aspetto fisico, si possa cogliere l’essenza reale delle persone, anche dei “mostri” come Merrick. Il male non è nel “diverso”, ma nella società che, non sapendo come accogliere quest’ultimo,  lo emargina per paura.

Giornata mondiale della disabilità 2016

Il prossimo 3 dicembre si celebrerà l’edizione 2016 Giornata mondiale della disabilità, istituita dall’ONU nel 1992 per tenere alta l’attenzione sui diritti e le istanze delle persone con disabilità, che, ad oggi, rappresentano più di un quinto della popolazione mondiale. L’edizione di quest’anno, tra l’altro, coinciderà con il decimo anniversario della Convenzione ONU sui diritti delle Persone con disabilità, per cui sarà l’occasione anche per fare il punto della situazione: com’è cambiata la condizione delle persone con disabilità, sul piano sociale, civile, educativo, lavorativo, medico e politico?

Giornata mondiale della disabilità 2016_poster inglese

Quest’edizione della Giornata mondiale della disabilità sarà incentrata sul raggiungimento dei “17 Obiettivi per il Futuro che Vogliamo“, che ricalcano gli obiettivi di sviluppo sostenibile, lanciati e promossi dalle Nazioni Unite, considerati dal punto di vista delle persone che convivono con una disabilità:

  1. Lotta alla povertà
  2. Lotta alla fame
  3. Promozione della salute e benessere per tutti e tutte le età
  4. Accesso ad una istruzione di qualità
  5. Parità di genere attraverso l’emancipazione delle donne e delle ragazze
  6. Acqua pulita e servizi igienico-sanitari
  7. Energia rinnovabile e accessibile
  8. Promozione dell’occupazione e di una crescita economica inclusiva, sostenuta e sostenibile, per tutti
  9. Promozione dell’innovazione e delle infrastrutture
  10. Riduzione delle diseguaglianze all’interno e tra i Paesi
  11. Promozione di città e comunità sostenibili
  12. Utilizzo responsabile delle risorse
  13. Lotta al cambiamento climatico
  14. Utilizzo sostenibile del mare
  15. Utilizzo sostenibile della terra
  16. Promozione di Pace e giustizia
  17. Partnership per lo sviluppo sostenibile

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Obiettivi ambiziosi, ma irrinunciabili, per tutti e, in particolare, per le persone che, a causa di malattie o dell’età, convivono con una qualche forma di disabilità e che ancora troppo spesso si trovano ad essere, di fatto, escluse dalla società, anche nei Paesi teoricamente più avanzati in quest’ambito, vittime di pregiudizi e barriere di ogni tipo.

In occasione della Giornata mondiale delle Persone con Disabilità, sono in programma in tutto il mondo, Italia compresa, numerose manifestazioni, tavole rotonde, convegni, iniziative di ogni tipo per ricordare a tutti che la disabilità è parte integrante del mondo in cui viviamo e, come tale, chi ne è portatore va tutelato ed “incluso“.

Pubblicità e diversità: qualcosa si muove?

Abbiamo ribadito in più occasioni, su questo sito, il ruolo cruciale dei media nell’indispensabile processo di abbattimento delle barriere culturali e di affermazione di una nuova cultura della disabilità. Se passi avanti importanti si registrano in ambiti come il cinema e la moda, con un approccio al racconto della disabilità, e della diversità in generale, che ribalta molti stereotipi del passato, la pubblicità resta ancora un ambito pressoché precluso alle persone con disabilità: ad eccezione delle campagne di Pubblicità Progresso e del popolarissimo spot con Checco Zalone, quanti altri esempi di advertising vi vengono in mente con protagonisti persone con disabilità?

pubblicità

Ci sono, è vero, campagne che puntano a sradicare gli stereotipi legati al concetto di “ideale” di bellezza (un esempio per tutti: la campagna di Dove© per la Bellezza Autentica), ma manca ancora quel passo in più. Eppure, almeno 1/5 della popolazione mondiale, oggi, ha una qualche forma di disabilità: perché escludere queste persone dalla pubblicità, che, a rigore, dovrebbe riflettere tutte le sfaccettature del mondo in cui viviamo?

Tuttavia, qualcosa sembra muoversi. Negli USA, per esempio, sta facendo parlare molto di sé (anche grazie ad un utilizzo massiccio dei social media) Changing the Face of Beauty, un’associazione il cui obiettivo è quello di sollecitare i brand ad utilizzare nelle proprie campagne pubblicitarie anche persone con sindrome di Down.

changing the face of beauty

Foto tratte dalla pagina Facebook di Changing the Face of Beauty

E a casa nostra? Come spesso accade, purtroppo, l’Italia ci mette un po’ a recepire determinati input. Eppure, qualcosa si muove anche nella nostra pubblicità. EatalyNe è un esempio la foto comparsa sull’edizione milanese del quotidiano “la Repubblica” del 1° novembre scorso, per pubblicizzare Eataly Smeraldo, la sede meneghina della nota catena di ristoranti e negozi di enogastronomia “made in Italy”: per la prima volta, vi compare, in mezzo alle altre, una persona affetta da sindrome di Down, che lavora proprio in quel punto vendita. Quindi, non una rappresentazione pietistica della condizione di disabilità, ma un ritratto fedele della realtà: la ragazza, come gli altri colleghi ritratti nella foto, è presente nella foto nella propria veste professionale, non per “esibire il disabile” (e mettersi a posto la coscienza, magari destando un po’ di scalpore).

La vera inclusione di tutti si ottiene non solo garantendo pari opportunità di accesso al lavoro, allo studio, alla mobilità, ma anche vedendo sui media tutte le sfaccettature della società, incluse le persone con disabilità, colte nella propria normalità quotidiana, che, a ben guardare, non è poi tanto diversa da quella di chiunque altro.

 

“Quasi amici”: quando l’amicizia supera le barriere

Può nascere un’amicizia autentica tra un ricco tetraplegico e un assistente squattrinato dalla vita sregolata? La risposta di “Quasi amici“, film francese del 2011 ispirato ad una storia vera, è un sì deciso. D’altronde, la spiegazione si può dedurre già dal titolo originale, Intouchables” (intoccabili). Ma andiamo per gradi.

"Quasi amici" locandina

La storia ricorda, per alcuni aspetti, quella di “Io prima di te“, almeno all’inizio. Anche qui, i due protagonisti principali della storia non potrebbero essere più diversi, almeno all’apparenza: Philippe, nobile benestante reso tetraplegico da un incidente mentre faceva parapendio, cerca un nuovo assistente e, per una pura casualità, anziché uno super-referenziato e dall’aspetto distinto, alla fine, la spunta Driss, senegalese appena uscito dal carcere, che ha bisogno di trovare un lavoro per avere accesso all’assistenza sociale per sé e per i familiari. Dopo un periodo di “adattamento”, tra i due s’instaura una certa complicità, fondata in particolare sul fatto che, agli occhi di Driss, Philippe non è soltanto un malato da accudire ma, soprattutto, una persona con la quale discutere, divertirsi facendo cose folli (per esempio, la corsa iniziale su una fuoriserie e la balla raccontata alla polizia che li ferma), confrontarsi, scambiarsi i gusti musicali, etc. Driss riesce anche a convincere Philippe a riaprirsi ai sentimenti, incitandolo a tornare ad occuparsi della figlia adolescente, ma anche a darsi una possibilità con Éléonore, la donna con la quale intrattiene da tempo un rapporto epistolare, senza avere il coraggio d’incontrarla di persona.

In “Quasi amici”, c’è molto più del classico racconto, trito e ritrito, del rapporto tra persone disabili e “normali”. Philippe e Driss in definitiva, agli occhi della società, sono entrambi “intoccabili”, per ragioni diverse, e forse anche per questo riescono più facilmente ad entrare in sintonia e, alla fine, a cambiarsi la vita a vicenda. Insomma, a mio parere, è un film che merita i tanti riconoscimenti che s’è guadagnato: vale proprio la pena di (ri)vederlo!

“Balla la mia canzone”: un film su disabilità, autonomia, sentimenti

"Balla la mia canzone"Oggi vi parlerò di un film australiano del 1998, che mi ha fatto conoscere Lorella Ronconi, durante la nostra chiacchierata di qualche tempo fa. “Balla la mia canzone” (titolo originale “Dance me to my song“) è stato realizzato da Rolf de Heer, un regista abituato, attraverso le sue pellicole, a dare voce a chi non ne ha. Il film racconta una storia di fantasia, ma con molti punti di contatto con la vita reale di Heather Rose,  disabile gravissima lei stessa, morta nel 2002 a soli 36 anni, che ha scritto la sceneggiatura e interpretato la protagonista, Julia, affetta da paralisi cerebrale che utilizza un sintetizzatore vocale per comunicare col mondo, la quale, nell’ambito di un progetto che promuove l’autonomia delle persone disabili, esce dall’istituto in cui era ricoverata e va a vivere in un appartamento tutto per sé, con l’aiuto di un’assistente, Madelaine, che la mortifica e le usa violenze di ogni tipo, psicologiche e non solo.Ma la vita di Julia non è fatta di sole ombre. A fare da contraltare a Madelaine, c’è Rix, anche lei assistente di professione, che, a dispetto di un aspetto esteriore che ispira ben poca affidabilità, riesce a sintonizzarsi perfettamente sulle frequenze anche emotive di Julia e, soprattutto, a trattarla con rispetto e, in definitiva, da persona, più che da “paziente”. Ma, soprattutto, c’è Eddie, il vicino di casa di Julia, che, gradualmente, instaura con lei un rapporto che va ben oltre la semplice amicizia, suscitando il risentimento e la crudele vendetta di Madelaine.

“Balla la mia canzone” è un film duro, con immagini forti, che lasciano poco o nulla all’immaginazione. Ma ha anche il merito, non da poco, di mostrare in tutta evidenza come, al di là dell’handicap specifico, le persone con disabilità (anche gravi) restano, in tutto e per tutto, persone come le altre, con gli stessi istinti e desideri. E -sorpresa?- possono anche risultare affascinanti e perfino sessualmente desiderabili agli occhi di persone normali: la scena di Julia e Eddie che fanno l’amore è erotica tanto quanto lo sarebbe se, al posto di un’attrice disabile, ve ne fosse una corrispondente ai canoni classici di bellezza e normalità. Solo la visione miope e condizionata da stereotipi di Madelaine le impedisce di capire che non c’è niente di “malato” in quello che ha visto,  sorprendendo i due.

Un film da vedere, “Balla la mia canzone”, anche per riflettere su un altro tema fondamentale: il diritto delle persone disabili all’autonomia, ad essere non solo “oggetto di cura” ed assistenza materiale, ma anche, e innanzitutto, padrone della propria vita, in ogni aspetto.

Lo spot con Checco Zalone è davvero “scorretto”?

In questi giorni, sta destando un notevole scalpore lo spot con Checco Zalone per la raccolta di fondi a favore della ricerca sull’Atrofia Muscolare Spinale (SMA), promossa dalla onlus Famiglie SMA.

Contrariamente a quanto avviene di solito in questo genere d’iniziative, lo spot con Checco Zalone non sfrutta toni pietistici, ma fa leva su una caratteristica che ha reso celebre il comico pugliese: la capacità di essere dissacrante. Nello spot, Zalone si lamenta per le intemperanze di un condomino. Cosa c’è di nuovo? Che il condomino in questione è Mirko, un ragazzino affetto da SMA che si è appena trasferito nel palazzo, costringendo Zalone a modificare le proprie abitudini: perde il posto auto, fa tardi in ufficio o perde l’aereo perché, a causa delle barriere architettoniche, il padre del ragazzino è costretto a fare mille manovre per consentirgli di arrivare dall’auto a casa e viceversa, non riesce a dormire perché Mirko gioca fino a tardi ai videogame, etc.

Mirko, nello spot, non è descritto come un “poveretto” da aiutare per compassione, ma come un “intralcio”: Zalone decide di sostenere la ricerca augurandosi che, così, Mirko guarisca e lo liberi dai problemi che gli causa.

Famiglie SMA - spot con Checco Zalone

Ma questo significa che lo spot con Checco Zalone è “scorretto”? A mio parere, è esattamente l’opposto. Perché è esattamente così che bisognerebbe guardare alla disabilità: basta compassione di qualche attimo (che, spesso e volentieri, lascia il tempo che trova), benvenuta “normalità”! 

La ricerca non va sostenuta per “pietà”, ma per aiutare persone che, nel bene e nel male, sono esattamente come tutti. Quindi, magari, anche per risolvere, “egoisticamente”, un problema. Lo stesso approccio dovrebbe essere adottato quando si guarda alle barriere, architettoniche e culturali, che condizionano quotidianamente l’esistenza di molte persone, disabili e non: la loro eliminazione non dovrebbe essere una “generosa concessione” a soggetti o categorie da compatire, ma il frutto della consapevolezza che, senza di esse, il mondo in cui tutti viviamo sarebbe nettamente migliore. Per tutti.

Paralimpiadi di Rio 2016: bilancio più che positivo

Si sono appena concluse le Paralimpiadi di Rio de Janeiro, le 15° nella storia di questa manifestazione, ed è il momento di fare un bilancio.

Partita alla volta del Brasile con più di 100 atleti, la compagine azzurra torna a casa con un bottino più che lusinghiero: ben 39 le medaglie conquistate (10 ori, 14 argenti e 15 bronzi), che, per la prima volta negli ultimi 20 anni, hanno permesso all’Italia di entrare nella top 10 finale.

Un risultato eccezionale, merito dell’impegno, del talento e della grinta di atleti straordinari, che hanno tenuto inchiodati agli schermi di TV e computer migliaia di italiani, conquistati sia dalle gesta sportive che dalla carica umana irresistibile di persone come Bebe Vio, Alex Zanardi, Federico Morlacchi, Martina Caironi, Alvise De Vidi, Assunta Legnante, etc. Tanti uomini e tante donne, ciascuno con la propria storia personale e sportiva,  che si sono guadagnati, giorno dopo giorno uno spazio crescente anche sui media, tradizionali e non.

E proprio l’attenzione di TV, giornali e web è uno degli aspetti più positivi di quest’edizione delle Paralimpiadi. La RAI ha assicurato una copertura eccellente di tutta la manifestazione, sfruttando sia RAI 2 che RaiSport (canali visibili gratuitamente da tutti) e lo streaming sul web, per dare spazio non solo alle gesta degli atleti azzurri, ma anche alle gare più importanti di discipline nelle quali non erano impegnati atleti di casa nostra. La “Gazzetta dello Sport”, il più noto quotidiano sportivo a livello nazionale, ha dedicato un’intera sezione del proprio seguitissimo sito web alle gare delle Paralimpiadi di Rio. Anche i social media hanno riservato una grande attenzione alle imprese degli atleti paralimpici, esaltandone le gesta sportive e non solo.

Ma, al di là dello spazio riservato alle Paralimpiadi di Rio, l’aspetto, a mio parere, più importante è il registro utilizzato per raccontarle: niente toni lamentosi, niente sottolineatura morbosa delle disabilità specifiche dei vari atleti in gara. Sono state raccontate, innanzitutto, le loro gesta sportive, dando molto risalto anche alle personalità dei singoli. Uno dei ricordi indelebili di queste Paralimpiadi resterà, per me, l’urlo di Bebe Vio dopo aver conquistato, alla sua prima partecipazione alle Paralimpiadi, l’oro nel fioretto: l’esultanza (comprensibilissima) di una ragazza di 19 anni che sa di aver compiuto un’impresa importante. Niente di più, niente di meno.

Grazie a tutti gli atleti per questi giorni d’intense emozioni, che spero vivamente abbiano ricadute positive sulla quotidianità di tutte le persone disabili, in Italia e non solo.

Arrivederci a Tokyo tra 4 anni: chissà se Zanardi sarà anche lì?

Interagire coi disabili: qual è il modo giusto?

Qual è il modo giusto d’interagire coi disabili? Come parlare con loro? La risposta a queste domande può sembrare ovvia, ma varie esperienze (personali e non) mi ricordano che non è poi così scontata…

Prendo spunto da una scena alla quale ho assistito ieri. Due adulti, nella sala d’attesa di un reparto di riabilitazione: una “normodotata” e un uomo con una grave disabilità in seguito ad un ictus. La persona “normale”, madre di un altro paziente, parla con l’uomo disabile (che, oltre ad essere su sedia a rotelle, è anche afasico, quindi riesce ad articolare con fatica parole di senso compiuto, ma è perfettamente lucido e consapevole di sé e degli altri), utilizzando delle parole e un tono di voce più adatti al dialogo con un bebè che con una persona adulta, quale è quella che si trova davanti, senza dimenticare di dargli un’affettuosa “grattatina” sulla testa, mentre parlano. Appena l’uomo in questione si allontana, la donna attacca bottone con me (anch’io in attesa  della chiamata per la mia seduta): “Che tenero che è, Carlo (nome di fantasia, ndr)! Non è vero?”.  Io mi mordo la lingua per non risponderle in maniera sgarbata: in fondo, è una donna gentile, che ha parlato in totale buona fede. Prima che lei possa continuare a parlare, il fisioterapista mi chiama e io, nella mia mente, lo ringrazio…

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Se avessi avuto tempo e modo di risponderle con calma, ecco cosa le avrei detto. No, mia gentile signora, non penso che “Carlo” sia tenero. Né credo che lui punti ad apparire tale, quando cerca di fare due chiacchiere con altre persone. E’ un uomo adulto che, dopo un’esistenza perfettamente normale, s’è ritrovato, per puro caso, a dipendere in tutto e per tutto da altri, senza potersi neanche affidare alle parole per esprimere le proprie sensazioni e necessità, se non a costo di un’enorme fatica (e parecchio scoramento, vedendo l’espressione smarrita di chi non è abituato ad avere a che fare con un afasico). Non penso che “Carlo” (o qualsiasi altro disabile, a partire da me stessa) sia “tenero” o debba per forza di cose essere definito tale, Non perché siamo brutti, sporchi e cattivi (a volte, siamo anche quello, come tutti del resto). Semplicemente, perché non siamo né dei cuccioli, né dei “coccolosi” peluche, ma delle persone.

Quanti si rivolgerebbero ad un conoscente adulto non disabile parlandogli come se fosse un bambino di 2 anni, facendogli i “grattini” sulla testa e definendolo “tenero” parlandone con altri? Nessuno, direi. Allora, perché ci si sente autorizzati a farlo con una persona disabile? Perché non si riesce, semplicemente, a parlarle per quello che è, vale a dire una persona adulta e in possesso delle proprie facoltà mentali, anche se impedita nei movimenti (o in altri aspetti, a seconda della disabilità specifica)?

Interagire coi disabili

Anche se animati dalle migliori intenzioni, è bene ricordarsi che questo modo d’interagire coi disabili è sbagliato tanto quanto discriminarli e prenderli in giro con cattiveria (anche se, apparentemente, non fa alcun male, anzi!). Equivale a negare, in qualche modo, a quelle persone la dignità che, invece, si riconosce ad altre, semplicemente in virtù di una condizione di “diversità” più o meno transitoria. Così come è terribilmente doloroso sentirsi dire (col sorriso sulle labbra e con ammirazione sincera): “Che brava! Nonostante la tua disabilità, sei veramente una persona in gamba!”. E che c’è di strano? Che bisogno c’è di sottolineare sempre e comunque quel “nonostante“? Si dice forse a chi è alto, basso, grasso, magro, bruno o biondo che, “nonostante ciò“, è una persona in gamba? Cosa c’entrano i successi (e gli insuccessi) scolastici, professionali o di altro tipo di una persona con una sua caratteristica fisica? 

Può darsi che una persona con disabilità, nella vita, si sia trovata a dover tirare fuori più grinta di altre, per affrontare le sfide quotidiane e conquistare i vari traguardi. Ma chi dice che, per questo, si consideri o voglia essere considerata “super” e non, semplicemente, come tutte le altre?

Ecco, quindi. Se mi chiedete quale sia, secondo me, il modo giusto d’interagire coi disabili e, nello specifico, con me, la mia risposta è: trattatemi come una persona, il resto viene da sé.

Paralimpiadi di Rio 2016: una nuova visione della disabilità?

Dopo la suggestiva cerimonia d’apertura che si è svolta la notte scorsa, da oggi entrano nel vivo le gare delle Paralimpiadi di Rio de Janeiro, le 15° della storia. Fino al 18 settembre, più di 4.300 atleti provenienti da 176 Paesi si cimenteranno in 23 discipline. L’Italia si presenta con 101 atleti, tra i quali spiccano, per citarne alcuni, i nomi di Martina Caironi, Beatrice “Bebe” Vio, Alex Zanardi, Monica Contrafatto, Giusy Versace. Giulia Ghiretti.

Una manifestazione, i Giochi Paralimpici, il cui significato va oltre il semplice ambito sportivo, perché, come sottolineato dagli stessi atleti, si tratta di un’occasione per puntare i riflettori del mondo sulla disabilità, contribuendo all’affermazione di quella “cultura della disabilità” che ancora fatica ad essere compresa ed accettata pienamente.

Paralimpiadi Rio 2016Ma le Paralimpiadi sono anche un’occasione per riflettere sul modo in cui vengono presentati e “vissuti” gli atleti paralimpici. Soprattutto a partire da Londra 2012, sembra- fortunatamente- superata la visione “pietistica” che è stata pressoché dominante per decenni: i paralimpici non sono “sportivi minori”, ma atleti di tutto rispetto, che si allenano, gareggiano, battono record, etc.

Tuttavia, dietro l’angolo, a mio parere, c’è un altro rischio: quella che io chiamo la retorica dei “superuomini”, alla quale fa riferimento, a partire dal titolo, anche il suggestivo video realizzato dalla britannica Channel 4, l’emittente che trasmette le Paralimpiadi nel Regno Unito.

È giusto considerare “superuomini” (e “superdonne”) gli atleti paralimpici, solo perché gareggiano fronteggiando, oltre agli avversari, anche disabilità fisiche e sensoriali più o meno gravi? È “utile alla causa” della cultura della disabilità (di tutti, non solo degli atleti paralimpici) considerarli “super” o fonti d’ispirazione o non rischia, piuttosto, di creare un’ulteriore barriera tra noi persone disabili e gli altri, i “normali”?

Tom, la mascotte delle Paralimpiadi di Rio 2016Non sarebbe, forse, più corretto (e utile) descrivere le loro gesta sportive, esaltandole com’è giusto che sia, ma senza fare cenno ad una loro presunta “superiorità”? Certo, è indubbiamente utile, per chi fa i conti quotidianamente con una disabilità cronica di qualsiasi tipo, vedere altre persone nella sua stessa condizione (o in situazioni più gravi) che, anziché piangersi addosso, si mettono in gioco, sfidando i propri limiti. Ma non è proprio questo, vale a dire sfidare i propri limiti, che fanno anche gli sportivi “normali”? Perché sottolineare questo aspetto solo per gli atleti paralimpici?

Non mi stancherò mai di ripeterlo: le persone disabili non sono né migliori né peggiori rispetto alle altre. Le persone disabili sono, innanzitutto, persone. E come tali andrebbero raccontate. Sarà così anche a Rio 2016? Staremo a vedere e, ovviamente, a tifare!