Blindly dancing: per ballare gli occhi non servono

Avete mai provato a bendarvi gli occhi e a fare, in questa situazione, le cose che fate di solito vedendo (mangiare, camminare, etc.)? A me è capitato di farlo qualche anno fa, per qualche ora, e, dopo il disagio e il disorientamento iniziali, ho vissuto un’esperienza decisamente unica. Ma, in quell’occasione, non avevo provato a ballare “al buio“. Ho ripensato per caso a quell’esperienza leggendo su un magazine la storia di Elena Travaini e della “blindly dancing, il metodo da lei inventato per coltivare la sua grande passione per la danza oltre i limiti che, agli occhi della maggior parte della gente, le imporrebbe il tumore alla retina con il quale convive fin dalla nascita e che l’ha resa praticamente cieca. Probabilmente, molti di voi l’avranno vista esibirsi, insieme al suo compagno, Anthony Carollo, nell’ultima edizione di “Ballando con le stelle“, il varietà di Rai1 dedicato, appunto, al ballo. I due, tra l’altro, saranno protagonisti del cortometraggio “Blurred” (letteralmente: “sfocato”), che sarà presentato al prossimo festival del cinema di Berlino.

Blindly dancing

Ma in cosa consiste, esattamente, la “blindly dancing“? La risposta è semplice: come dice la parola stessa, si tratta di una danza al buio, nella quale i ballerini portano una benda sugli occhi, in modo tale da potersi concentrare, durante il ballo, sul proprio corpo e sulle sue sensazioni ed emozioni. In tal modo, ballerini con disabilità visiva e ballerini vedenti possono ballare insieme e condividere fino in fondo l’esperienza del ballo. Attraverso questo metodo, oltre a scoprire se stessi ed entrare in contatto con le proprie emozioni e sensazioni più profonde, s’impara anche a fidarsi della persona con la quale si sta ballando e ad “ascoltarla”. Perciò la “blindly dancing” viene spesso utilizzata anche per sensibilizzare contro il bullismo, che, in fondo, nasce proprio dall’incapacità di provare empatia verso l’altro, verso chi vive una situazione o condizione che non si conosce.

Elena e Anthony hanno costituito una onlus, per portare in giro per l’Italia e l’Europa la blindly dancing e il suo messaggio profondo: non ci sono confini invalicabili, se ci si lascia guidare dalle proprie sensazioni e passioni, aprendosi al prossimo.

Dance, dance, dance: alla scoperta della danceability

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Si può ballare, se si ha una disabilità motoria? D’istinto, verrebbe da rispondere no. Ma la realtà è, fortunatamente, diversa.

Era il 1987 quando due coreografi statunitensi, Alito Alessi e Karen Nelson, creavano la danceability, un metodo di danza basato sul principio per cui tutti, disabili compresi, hanno la possibilità e il diritto di esprimere la propria verve artistica anche nella danza. Come? Basta trovare il metodo adeguato alle possibilità di ciascuno.

A distanza di quasi 30 anni, il metodo ideato dai due coreografi ne ha fatta di strada. Oggi, Alessi è il promotore di DanceAbility® International, un’organizzazione che si pone come obiettivo quello di promuovere il metodo, e la filosofia sulla quale si fonda, in tutto il mondo (Italia compresa!), con workshop, corsi e spettacoli.

danceability

Ma a chi è destinata la danceability? Solo disabili (motori, psichici o sensoriali che siano)? No, tutt’altro! Durante le lezioni, viene incoraggiata l’interazione continua tra disabili e normodotati, nella libera espressione consentita dalla danza. Non ci sono schemi, né passi giusti o sbagliati, né regole rigide: sta alla creatività e alla fantasia di ciascuno inventare la coreografia che gl’ispira la musica, secondo le proprie capacità e possibilità.

Inoltre, questo metodo si rivela particolarmente utile anche per coloro che lavorano direttamente con persone disabili, perché consente di apprendere metodologie efficaci per stabilire un contatto più diretto ed efficace con loro.

Senza contare che, non “ghettizzando” le persone disabili in “lezioni dedicate”, ma mischiandole ai cosiddetti “normodotati”, la danceability riesce là dove, molte volte, si arenano molte buone intenzioni: favorire e creare, attraverso l’esperienza della danza, l’effettiva integrazione delle persone con disabilità (che sono, per l’appunto, persone, prima che patologie), sovvertendo e, spesso, demolendo i pregiudizi e i preconcetti- ancora fin troppo diffusi e radicati- che circondano disabilità e dintorni.

Allora, che ne dite: ci lanciamo in pista?