“Eleanor Oliphant”: diversità, solitudine e speranza

Ho sempre amato molto leggere, ma non sempre i libri che ho avuto sotto mano mi hanno lasciato dentro un segno profondo. Non è decisamente il caso dell’ultimo che ho letto, “Eleanor Oliphant sta benissimo“, romanzo d’esordio della scozzese Gail Honeyman, che è diventato un piccolo “caso letterario” e si appresta a diventare anche un film.

"Eleanor Oliphant sta benissimo"

“Eleanor oliphant sta benissimo”: la trama

Tranquilli: niente spoiler! 🙂 Non ho intenzione di rovinarvi il piacere di leggere questo romanzo avvincente e molto ben scritto. Mi limiterò solo a raccontarvi qualcosa della storia di Eleanor, un personaggio di quelli difficili da dimenticare. Eleanor è una giovane donna inglese con una vita apparentemente “insignificante”, tra il lavoro come contabile in un’agenzia di graphic design e la solitudine del proprio appartamento, con una pianta e la vodka come unica compagnia. Eleanor ha un carattere schivo, non le interessa essere alla moda, né legare coi colleghi, che, d’altronde, non fanno granché per stabilire un contatto meno che formale con lei.  La vedono come una “strana entità”, per il suo abbigliamento fuori moda, l’aspetto sciatto (contraddistinto da una cicatrice che le deturpa il viso, retaggio dell’evento che ha segnato la sua vita), le abitudini insolite. Perciò, la canzonano, isolandola e rivolgendole, tutt’al più, battutine e nomignoli poco simpatici. Ma lei, come dice il titolo, “sta benissimo“. O, almeno, così crede, finché, complice una serie di eventi che non vi svelerò, inizierà a capire che c’è vita oltre i confini della sua routine e, gradualmente, imparerà anche a fare i conti con i propri fantasmi.

eleanor, “una di noi”

‘Sono stata al centro di fin troppa attenzione in vita mia. Ignoratemi, passate oltre,
non c’è nulla da vedere qui!’ 

In questa citazione, tra le mie preferite del romanzo, ho ritrovato uno degli aspetti che mi fanno sentire emotivamente più vicina ad Eleanor: anch’io, infatti, per gran parte della mia vita, ho desiderato ardentemente solo di essere invisibile, di non suscitare curiosità morbosa da parte della gente che incontravo. Ma anch’io, come lei, sto gradualmente imparando a far pace con me stessa, a perdonarmi per ciò di cui non ho colpa e a guardare agli altri in modo diverso, non necessariamente come potenziali “minacce”, ma anche come opportunità, in tutti i sensi.

Ecco, quindi, perché consiglio a tutti, se non l’avete ancora fatto, di leggere questo bellissimo romanzo: una boccata d’aria fresca e un barlume di speranza per tutti. Perché, in fondo, in ognuno di noi c’è un po’ di Eleanor.

“La forma dell’acqua”: una favola sulle diversità

Se siete tra quelli (pochi) che non l’hanno ancora visto, spero di convincervi ad andare subito al cinema! Perché “La forma dell’acqua“, il film di Guillermo del Toro vincitore del Leone d’Oro alla Mostra Internazionale del Cinema di Venezia nel 2017 e di quattro Oscar solo un paio di mesi fa, racconta una storia difficile da dimenticare, che tocca le corde più profonde del cuore.

“La forma dell’acqua” è una favola ambientata nella Baltimora dei primi anni ’60, in piena guerra fredda. I protagonisti rappresentano varie diversità: Elisa, orfana resa muta dalla recisione delle corde vocali subita da bambina; Zelda, sua collega, afroamericana e addetta alle pulizie, come Elisa; Giles, l’anziano disegnatore pubblicitario omosessuale coinquilino di Elisa, discriminato sul lavoro. E poi, ovviamente, lui, il Deus Brânquia, la “forma” cui fa riferimento il titolo del film (e del romanzo che costituisce l’altra parte del progetto), venerato come un dio dalle popolazioni dell’Amazzonia e catturato e portato in catene nel laboratorio governativo in cui lavorano Elisa e Zelda, per studiarlo allo scopo di contrastare la Russia. Esseri emarginati che, fatalmente, s’incontrano e finiscono per costituire un gruppo affiatato, per quanto all’apparenza bizzarro.

La forma dell'acqua - Elisa e il Deus Brânquia

Elisa, che è riuscita ad instaurare un rapporto di muta complicità con la creatura, decide di fare di tutto per salvarla da un destino apparentemente segnato e, con l’aiuto di Giles, Zelda e di uno degli scienziati del laboratorio (che, in realtà, è una spia russa in incognito), riesce a portarla in salvo nel proprio appartamento. Qui, i due finiscono per innamorarsi, ma, prima del lieto fine, dovranno ancora superare vari ostacoli, in un crescendo di tensione ed emozioni.

Il finale de “La forma dell’acqua” (che non vi svelerò) è decisamente “da favola”, un po’ come il registro complessivo del film. Ciò nonostante, questa pellicola riesce, con delicatezza e poesia, a lanciare un messaggio potentissimo, nella sua semplicità: al di là delle nostre differenze, siamo tutti uguali, in fondo, e tutti degni di essere trattati (ed amati) con rispetto ed umanità.

“Forrest Gump”: la rivincita della diversità

Continuiamo il nostro viaggio virtuale nel modo in cui i media raccontano la disabilità e, in generale, la diversità con un film del 1994, che è, ormai, entrato nel linguaggio comune: “Forrest Gump” di Robert Zemeckis, con protagonista uno strepitoso Tom Hanks nei panni, per l’appunto, di Forrest, un uomo che, ormai adulto, seduto su una panchina alla fermata dell’autobus, racconta alle persone che si vanno succedendo la propria vita.

L’inizio del racconto sembrerebbe la “solita storia” di un bambino disabile negli USA degli anni ’40: l’esistenza del piccolo Forrest era segnata dalla malattia  e dalla disabilità, fisica e cognitiva, che lo rendeva facile preda dei bulli di turno. Il piccolo trova comunque la forza di reagire, anche grazie al sostegno della madre e di Jenny, l’unica coetanea che sembra considerarlo degno della propria amicizia. Proprio quest’ultima, per sfuggire all’ennesimo attacco dei bulli, fa sì che Forrest Gump scopra, a dispetto della propria disabilità fisica, un’abilità che gli cambierà la vita: è bravissimo nella corsa! Sfruttando questa dote, sarà ammesso nella squadra di football e, presto, ne diventa la stella. Grazie ai propri meriti sportivi, viene ammesso all’università e riesce a laurearsi, prima di arruolarsi nell’esercito e arrivare a combattere in Vietnam. Ferito mentre portava in salvo dei commilitoni, Forrest Gump approda all’ospedale militare, dove impara a giocare a ping-pong e – manco a dirlo- eccelle anche in questo sport.

“La vita è come una scatola di cioccolatini: non sai mai quello che ti capita”

Il “povero Forrest”, deriso e tormentato dai bulli quand’era bambino, è diventato un uomo, a suo modo, di successo, che arriva anche ad incontrare personalmente il Presidente degli Stati Uniti, che gli consegna un’onorificenza. Ma non finisce qui: per una serie di coincidenze fortunate, Forrest riesce addirittura a diventare miliardario. Rimarrebbe un sogno da coronare: l’amore per Jenny, che, nel frattempo, ha avuto una vita tormentata. Lei, temendo di rovinargli la vita, va a letto con lui, ma poi sparisce. Allora, Forrest riscopre la passione per la corsa e inizia a correre, senza una meta precisa, attirando seguaci che si mettono a correre con lui pensando che lo faccia per uno scopo nobile, e così passano ben tre anni. Poi, improvvisamente, Forrest si ferma: è stanco e vuole tornare a casa. Ritrova Jenny, che, nel frattempo, ha dato alla luce il figlio di Forrest, e, finalmente, si sposano, anche se la loro felicità non è destinata a durare a lungo: ammalatasi, Jenny muore e Forrest si occupa della crescita del loro intelligentissimo figlio.

Forrest Gump

“Forrest Gump” è un film poetico, che riesce a raccontare con leggerezza una storia che potrebbe facilmente scivolare nel patetico, se non vi fosse, sempre pronto, quel particolare che strappa un sorriso e alleggerisce l’atmosfera. Ma è, soprattutto, un film con una morale molto chiara: nessuno ha il destino segnato, se trova in sé (e in chi gli sta accanto) la forza (e la possibilità) di superare le proprie difficoltà.

“The elephant man”: la disabilità nella Londra vittoriana

Proseguiamo la rassegna dei film che hanno affrontato il tema della diversità e, in particolare, della disabilità con un classico girato nel 1980 da uno dei miei registi preferiti: il bellissimo “The elephant man“, di David Lynch, ispirato alla vicenda di Joseph Merrick (ribattezzato John), un uomo affetto dalla rarissima sindrome di Proteo, che aveva gravemente alterato le fattezze del suo volto e del suo corpo. Nel film come nella vita reale dell’uomo, Merrick viene scoperto per caso da un celebre medico durante uno spettacolo, nel quale veniva esposto come un fenomeno da baraccone, utilizzando la sua “mostruosità” per arricchirne lo spietato sfruttatore. Il medico lo porta con sé e, gradualmente, lo aiuta ad inserirsi nella società, restituendogli la dignità umana che, fino a quel momento, gli era stata negata e permettendo alla gente di scoprire, oltre il “mostro”, un uomo sensibile e colto.

"The Elephant Man"

Naturalmente, la sua storia si diffonde rapidamente per tutta Londra, arrivando perfino alle orecchie della stessa regina Vittoria, che, impietosita dalla vicenda, apre un fondo per finanziarne le cure mediche. Tutto bene, quindi? Neanche per sogno! Il suo aguzzino riesce a trovarlo e rapirlo, tornando a sfruttarlo nel proprio circo di “freak“, ma sono proprio gli altri “fenomeni da baraccone” ad aiutarlo a fuggire e tornare a Londra. Qui, ha luogo la scena più commovente di tutto il film: alla stazione, Merrick, mentre corre per sfuggire alle angherie di un gruppo di ragazzini, urta accidentalmente una bambina e rischia, per questo, il linciaggio da parte della folla. Ma l’uomo, per fermarli, urla: “Non sono un elefante! Io non sono un animale! Sono un essere umano!“. Finalmente al sicuro, affidato nuovamente alle cure del medico che l’aveva già aiutato, Merrick ha un altro “momento di gloria”, assistendo ad una rappresentazione teatrale durante la quale gli viene tributata un’ovazione. Tornato in ospedale, l’uomo muore, finalmente in pace e con il cuore scaldato dalla consapevolezza di aver avuto, in vita, almeno un amico: il medico.

The elephant man” non è un racconto strappalacrime che indulge al pietismo. Tutt’altro! David Lynch, col suo stile asciutto ed essenziale, riesce a far percepire come, andando oltre l’apparenza dell’aspetto fisico, si possa cogliere l’essenza reale delle persone, anche dei “mostri” come Merrick. Il male non è nel “diverso”, ma nella società che, non sapendo come accogliere quest’ultimo,  lo emargina per paura.

“Sasso, carta, forbici”: Google contro il bullismo

Negli ultimi giorni, mi sono imbattuta spesso, navigando su Internet, in un video molto bello e significativo: “Sasso, carta, forbici“, lo spot di Android (il sistema operativo di Google per i dispositivi mobile) contro il bullismo. Lo spot non è nuovo, essendo stato presentato per la prima volta a febbraio scorso, durante l’ultima notte degli Oscar. Ma, visto che il bullismo continua ad essere un problema pressoché globale, vale sempre la pena di rivederlo e, soprattutto, riflettere sul senso profondo del messaggio che trasmette.

Sasso, carta, forbici“: chi di noi non ha mai giocato almeno una volta, da bambino, alla morra cinese? Nel gioco, i tre elementi sono, da un lato, in grado di annullare l’azione di un avversario, ma, dall’altro, sono esposti ad essa: per esempio, il sasso batte le forbici, ma, allo stesso tempo, viene battuto dalla carta. Soltanto unendo le proprie forze sasso, carta e forbici possono resistere agli attacchi esterni.

Perché è proprio sulla solitudine della vittima prescelta che fa leva il bullo (o i bulli) di turno, per colpirla. Ed è un problema, il bullismo, che interessa costantemente bambini e ragazzi di ogni età, per le motivazioni più disparate: la disabilità, la differenza etnica, sessuale o anche, semplicemente, caratteriale o nell’aspetto esteriore sono tutti fattori che, in quanto segni di “diversità“, possono far apparire chi li rappresenta, suo malgrado, una sorta di “elemento di disturbo”, da eliminare dal quadro che, agli occhi dei bulli, dovrebbe rappresentare la “perfezione”.

"Sasso, carta, forbici" lo spot contro il bullismo

E, allora, che fare? Come superare il problema? Di certo, non girandosi dall’altra parte, liquidando gli episodi di bullismo come “ragazzate”, che passeranno da sé, come, purtroppo, succede troppo spesso. L’unico modo per superare il bullismo è, proprio come ricorda lo spot “Sasso, carta, forbici“, unire le forze, non isolare le vittime (anche solo potenziali) di bullismo, ma star loro accanto, mettere in atto ogni sforzo possibile per abbattere, attraverso la cultura dell’inclusione, le barriere che separano dai “diversi”.

“Indivisibili”: un film su diversità e cambiamento

È uscito solo da pochi giorni nei cinema, ma “Indivisibili” di Edoardo De Angelis è già diventato un piccolo “caso”, acclamato sia all’ultima Mostra del Cinema di Venezia che al Toronto International Film Festival.

"Indivisibili" - locandina

Il film racconta la storia di Viola e Daisy, due gemelle siamesi  (unite per una gamba) campane che, in un contesto sociale pieno di superstizioni e pregiudizi che le considera un po’ “sante” da venerare e un po’ fenomeni da baraccone, sono costrette dalla famiglia a guadagnarsi da vivere facendo le cantanti neo-melodiche. Casualmente, le ragazze vengono a sapere che un chirurgo potrebbe separarle, consentendo loro, finalmente, di avere una vita autonoma l’una dall’altra. Però, la famiglia si oppone strenuamente a questo loro desiderio d’indipendenza, temendo di perdere la propria fonte di guadagno.

“Indivisibili” offre molti spunti di riflessione, sia sulla quotidianità di chi vive questa particolare condizione che, in generale, sul modo in cui viene vista la disabilità e, in generale, la diversità. Alle due ragazze è negata la possibilità di esprimere la propria individualità, non solo a causa del loro essere fisicamente unite e, quindi, impossibilitate a condurre esistenze separate, ma anche perché, di fatto, il contesto nel quale vivono non riconosce loro la piena dignità di persone. A partire dalla loro “sgarrupata” famiglia, Viola e Daisy sono considerate più freak da esibire e su cui lucrare (a compensazione della “sventura” capitata alla famiglia) che persone dotate di diritti. Anche per questo, la famiglia non concepisce nemmeno che il “gioco” possa finire, in seguito ad un intervento che consenta alle ragazze di condurre esistenze autonome ed inseguire i rispettivi sogni.

"Indivisibili" - le protagoniste

“Indivisibili”, però, non è un film triste: tutt’altro! Volendo, lo si può definire una sorta di favola realistica, nella quale bello e brutto, sogno ed orrore si mescolano e si confondono. Un film che contiene un messaggio semplice, quanto profondo: la libertà di vivere la vita come si vuole, indipendentemente dalla propria condizione, è la cosa più importante.