“Tutti in piedi”, un racconto insolito di amore e disabilità

È uscito da pochi giorni, nelle sale italiane, “Tutti in piedi“, una commedia francese che affronta in termini insoliti un tema che è stato spesso trattato dal cinema, soprattutto negli ultimi anni: amore e disabilità.

Cosa c’è di insolito in “Tutti in piedi”? Innanzitutto, che i ruoli, in qualche modo, si rovesciano. Jocelyn, il protagonista maschile, è il classico dongiovanni impenitente, che cerca di conquistare qualsiasi donna gli capiti sotto il naso. E proprio questo suo istinto “cacciatore” lo porta a conoscere Florence, una donna affascinante e dalla vita molto attiva, raffinata musicista e campionessa di tennis, che, a causa di una disabilità motoria, si muove con una sedia a rotelle. Lui ne rimane immediatamente colpito e, per una serie di equivoci (la sorella di Florence, vicina di casa della defunta madre di Jocelyn, vedendolo seduto sulla sedia a rotelle della madre, pensa che anche lui abbia una disabilità motoria), finisce per sentirsi costretto a portare avanti la finzione, nel timore di non essere più accettato da Florence, se dovesse mostrarsi per quello che è.

"Tutti in piedi"

Una scena di “Tutti in piedi”

Proprio questo rappresenta, per molti versi, un elemento “nuovo” nel racconto delle dinamiche  “standard” tra persone con disabilità e normodotate: non è Florence a sentirsi inadeguata a causa della propria condizione, ma Jocelyn, che teme di non piacerle più se dovesse scoprire la verità sul suo conto.

Il regista di “Tutti in piedi”, Franc Dubosc, che interpreta anche il ruolo di Jocelyn, ha dichiarato che l’idea di realizzare un film che parlasse di disabilità gli è venuta dall’esperienza della madre, che, anziana, si ritrovò a non poter più camminare con le proprie gambe e a dover fare i conti con le tante barriere architettoniche (e non solo), alle quali, fino a quel momento, né lei né i familiari avevano fatto caso più di tanto. Da quell’esperienza è nata, per il regista, una consapevolezza nuova e una crescente curiosità verso la vita quotidiana delle persone con disabilità, inclusi gli aspetti relazionali. Durante la realizzazione del film, si è reso conto che, col tempo, i timori iniziali di urtare la sensibilità delle persone con disabilità si dissipavano, man mano che continuava a girare. Così, è giunto alla conclusione che, in definitiva, non servono particolari cautele per interagire (anche con finalità sentimentali) con una persona con disabilità: basta ricordarsi di avere davanti una persona, anziché una patologia o una condizione.

“La forma dell’acqua”: una favola sulle diversità

Se siete tra quelli (pochi) che non l’hanno ancora visto, spero di convincervi ad andare subito al cinema! Perché “La forma dell’acqua“, il film di Guillermo del Toro vincitore del Leone d’Oro alla Mostra Internazionale del Cinema di Venezia nel 2017 e di quattro Oscar solo un paio di mesi fa, racconta una storia difficile da dimenticare, che tocca le corde più profonde del cuore.

“La forma dell’acqua” è una favola ambientata nella Baltimora dei primi anni ’60, in piena guerra fredda. I protagonisti rappresentano varie diversità: Elisa, orfana resa muta dalla recisione delle corde vocali subita da bambina; Zelda, sua collega, afroamericana e addetta alle pulizie, come Elisa; Giles, l’anziano disegnatore pubblicitario omosessuale coinquilino di Elisa, discriminato sul lavoro. E poi, ovviamente, lui, il Deus Brânquia, la “forma” cui fa riferimento il titolo del film (e del romanzo che costituisce l’altra parte del progetto), venerato come un dio dalle popolazioni dell’Amazzonia e catturato e portato in catene nel laboratorio governativo in cui lavorano Elisa e Zelda, per studiarlo allo scopo di contrastare la Russia. Esseri emarginati che, fatalmente, s’incontrano e finiscono per costituire un gruppo affiatato, per quanto all’apparenza bizzarro.

La forma dell'acqua - Elisa e il Deus Brânquia

Elisa, che è riuscita ad instaurare un rapporto di muta complicità con la creatura, decide di fare di tutto per salvarla da un destino apparentemente segnato e, con l’aiuto di Giles, Zelda e di uno degli scienziati del laboratorio (che, in realtà, è una spia russa in incognito), riesce a portarla in salvo nel proprio appartamento. Qui, i due finiscono per innamorarsi, ma, prima del lieto fine, dovranno ancora superare vari ostacoli, in un crescendo di tensione ed emozioni.

Il finale de “La forma dell’acqua” (che non vi svelerò) è decisamente “da favola”, un po’ come il registro complessivo del film. Ciò nonostante, questa pellicola riesce, con delicatezza e poesia, a lanciare un messaggio potentissimo, nella sua semplicità: al di là delle nostre differenze, siamo tutti uguali, in fondo, e tutti degni di essere trattati (ed amati) con rispetto ed umanità.

“Forrest Gump”: la rivincita della diversità

Continuiamo il nostro viaggio virtuale nel modo in cui i media raccontano la disabilità e, in generale, la diversità con un film del 1994, che è, ormai, entrato nel linguaggio comune: “Forrest Gump” di Robert Zemeckis, con protagonista uno strepitoso Tom Hanks nei panni, per l’appunto, di Forrest, un uomo che, ormai adulto, seduto su una panchina alla fermata dell’autobus, racconta alle persone che si vanno succedendo la propria vita.

L’inizio del racconto sembrerebbe la “solita storia” di un bambino disabile negli USA degli anni ’40: l’esistenza del piccolo Forrest era segnata dalla malattia  e dalla disabilità, fisica e cognitiva, che lo rendeva facile preda dei bulli di turno. Il piccolo trova comunque la forza di reagire, anche grazie al sostegno della madre e di Jenny, l’unica coetanea che sembra considerarlo degno della propria amicizia. Proprio quest’ultima, per sfuggire all’ennesimo attacco dei bulli, fa sì che Forrest Gump scopra, a dispetto della propria disabilità fisica, un’abilità che gli cambierà la vita: è bravissimo nella corsa! Sfruttando questa dote, sarà ammesso nella squadra di football e, presto, ne diventa la stella. Grazie ai propri meriti sportivi, viene ammesso all’università e riesce a laurearsi, prima di arruolarsi nell’esercito e arrivare a combattere in Vietnam. Ferito mentre portava in salvo dei commilitoni, Forrest Gump approda all’ospedale militare, dove impara a giocare a ping-pong e – manco a dirlo- eccelle anche in questo sport.

“La vita è come una scatola di cioccolatini: non sai mai quello che ti capita”

Il “povero Forrest”, deriso e tormentato dai bulli quand’era bambino, è diventato un uomo, a suo modo, di successo, che arriva anche ad incontrare personalmente il Presidente degli Stati Uniti, che gli consegna un’onorificenza. Ma non finisce qui: per una serie di coincidenze fortunate, Forrest riesce addirittura a diventare miliardario. Rimarrebbe un sogno da coronare: l’amore per Jenny, che, nel frattempo, ha avuto una vita tormentata. Lei, temendo di rovinargli la vita, va a letto con lui, ma poi sparisce. Allora, Forrest riscopre la passione per la corsa e inizia a correre, senza una meta precisa, attirando seguaci che si mettono a correre con lui pensando che lo faccia per uno scopo nobile, e così passano ben tre anni. Poi, improvvisamente, Forrest si ferma: è stanco e vuole tornare a casa. Ritrova Jenny, che, nel frattempo, ha dato alla luce il figlio di Forrest, e, finalmente, si sposano, anche se la loro felicità non è destinata a durare a lungo: ammalatasi, Jenny muore e Forrest si occupa della crescita del loro intelligentissimo figlio.

Forrest Gump

“Forrest Gump” è un film poetico, che riesce a raccontare con leggerezza una storia che potrebbe facilmente scivolare nel patetico, se non vi fosse, sempre pronto, quel particolare che strappa un sorriso e alleggerisce l’atmosfera. Ma è, soprattutto, un film con una morale molto chiara: nessuno ha il destino segnato, se trova in sé (e in chi gli sta accanto) la forza (e la possibilità) di superare le proprie difficoltà.

“Axioma”: un cortometraggio sulla disabilità

Un assioma è un principio “evidente di per sé” e che, quindi, non ha bisogno d’essere dimostrato. E proprio a questo concetto rimanda “Axioma“, il titolo del cortometraggio dedicato al racconto della disabilità e delle implicazioni, pratiche e di carattere psicologico, che questa condizione ha su chi la vive. A produrlo è Village For All, che da anni s’impegna a garantire a ciascuno la sua vacanza, come recita la sua mission.

Logo Axioma

L’assioma, in questo caso, è la storia del protagonista di “Axioma” e della sua vita “prima” e “dopo” l’incidente che gli ha tolto la possibilità di camminare. Il film racconta il vissuto del protagonista, il suo sentirsi inizialmente un peso per i propri cari e per la società tutta, tanto da arrivare a decidere di “autorecludersi”, per poi giungere, gradualmente, alla consapevolezza che, nonostante le apparenze, non tutto è perduto e anche a lui, come a ciascun individuo, è concessa la possibilità di “rinascere”.

Il racconto di “Axioma” parte dal presupposto che la disabilità non è un tema che riguarda solo pochi “sfortunati”, ma, in qualche modo, tocca chiunque, contrariamente a quanto la nostra cultura tende a farci pensare, in genere. Il film non vuole dare voce solo ai “disabili in senso stretto”, vale a dire a coloro che hanno una disabilità fisica o psichica, ma anche a quanti sono emarginati, vittime di violenza o di bullismo. L’obiettivo è, come dice lo spot che lancia il progetto, quello di “infrangere la barriera del pregiudizio e confinare in una stanza senza porte e finestre un sempre più inutile buonismo per sostituirlo con la coerenza di pensiero ed azione“, puntando invece sull’uguaglianza, da raggiungere attraverso amore ed amicizia, in un percorso sostenibile per ciascun individuo.

Ma, si sa, realizzare un film, promuoverlo e distribuirlo nelle sale cinematografiche (per quanto “corto”) costa. Per questo motivo, Village For All ha lanciato una campagna di crowdfunding, che si chiuderà all’inizio di marzo: per contribuire alla realizzazione del cortometraggio, è possibile donare anche un solo euro. Ma, ovviamente, non è vietato donare di più!

Partecipiamo?

“Anna dei miracoli”: la storia di Helen Keller

Proseguiamo la nostra rassegna delle opere che hanno affrontato il tema della disabilità parlando di “Anna dei miracoli” (titolo originale “The miracle worker”), che ha ispirato anche opere teatrali rappresentate anche ai giorni nostri, nonché un anime del 1981 e, come probabilmente ricorderete se eravate bambini negli anni ’80, è stato citato nel manga “Il grande sogno di Maya“, con la giovane protagonista, aspirante attrice, che si trova a dover portare in scena proprio questa storia.

"Anna dei miracoli"

Pluripremiato (vanta due Oscar nel 1963, per la protagonista Anne Bancroft e per Patty Duke, che interpretava Anna, più numerosi altri riconoscimenti), “Anna dei miracoli” racconta la storia vera di Helen Keller, vissuta negli Stati Uniti tra la fine dell’800 e gli anni ’60 del ‘900, divenuta sordo-cieca a poco meno di 2 anni, probabilmente in seguito a meningite. Helen, prima viziata ed accontentata in tutto e per tutto dai genitori, inizia a fare progressi e conquistare la propria autonomia quando viene affidata alle cure di Anne Sullivan, giovane insegnante, anche lei parzialmente non vedente, che, con pazienza, dedizione e autorevolezza, insegna alla bambina che, nonostante la propria condizione, può anche lei imparare a parlare, leggere, studiare e avere una vita autonoma. Molto famosa la scena dell’acqua, nella quale Helen pronuncia la parola “acqua” dopo che Anne gliel’ha fatta scorrere sulle mani, ripetendole le lettere che la compongono:

Anna dei miracoli - Helen Keller il giorno della laurea

Helen Keller il giorno della laurea

Il film si ferma a questo punto, ma non la storia di Helen Keller, che, sotto la guida di Anne, gradualmente, continua a fare progressi, al punto da apprendere varie lingue straniere e diventare, a 24 anni, la prima persona sordo-cieca a laurearsi in un college. Trascorrerà il resto della sua lunga vita ad impegnarsi direttamente per i diritti delle persone disabili e degli operai, come avvocato e, poi, nelle file del Partito Socialista d’America, visitando anche molti Paesi, tra i quali il Giappone, da cui- altro primato- importerà negli USA due cani appartenenti alla razza “Akita Inu”. Il suo impegno le valse anche la più alta onorificenza statunitense, la Medaglia presidenziale della libertà.

Il film “Anna dei miracoli” è molto fedele alla vicenda reale di Helen Keller e riesce a rendere, grazie alle scene forti, all’ambientazione volutamente “claustrofobica” e al bianco e nero, la drammaticità e, al tempo stesso, il “miracolo” (per l’appunto) dell’apprendimento e della scoperta, da parte di Helen, del mondo che la circonda, ricordandoci che niente è impossibile di per sé: basta trovare il modo giusto per raggiungere l’obiettivo.

“The elephant man”: la disabilità nella Londra vittoriana

Proseguiamo la rassegna dei film che hanno affrontato il tema della diversità e, in particolare, della disabilità con un classico girato nel 1980 da uno dei miei registi preferiti: il bellissimo “The elephant man“, di David Lynch, ispirato alla vicenda di Joseph Merrick (ribattezzato John), un uomo affetto dalla rarissima sindrome di Proteo, che aveva gravemente alterato le fattezze del suo volto e del suo corpo. Nel film come nella vita reale dell’uomo, Merrick viene scoperto per caso da un celebre medico durante uno spettacolo, nel quale veniva esposto come un fenomeno da baraccone, utilizzando la sua “mostruosità” per arricchirne lo spietato sfruttatore. Il medico lo porta con sé e, gradualmente, lo aiuta ad inserirsi nella società, restituendogli la dignità umana che, fino a quel momento, gli era stata negata e permettendo alla gente di scoprire, oltre il “mostro”, un uomo sensibile e colto.

"The Elephant Man"

Naturalmente, la sua storia si diffonde rapidamente per tutta Londra, arrivando perfino alle orecchie della stessa regina Vittoria, che, impietosita dalla vicenda, apre un fondo per finanziarne le cure mediche. Tutto bene, quindi? Neanche per sogno! Il suo aguzzino riesce a trovarlo e rapirlo, tornando a sfruttarlo nel proprio circo di “freak“, ma sono proprio gli altri “fenomeni da baraccone” ad aiutarlo a fuggire e tornare a Londra. Qui, ha luogo la scena più commovente di tutto il film: alla stazione, Merrick, mentre corre per sfuggire alle angherie di un gruppo di ragazzini, urta accidentalmente una bambina e rischia, per questo, il linciaggio da parte della folla. Ma l’uomo, per fermarli, urla: “Non sono un elefante! Io non sono un animale! Sono un essere umano!“. Finalmente al sicuro, affidato nuovamente alle cure del medico che l’aveva già aiutato, Merrick ha un altro “momento di gloria”, assistendo ad una rappresentazione teatrale durante la quale gli viene tributata un’ovazione. Tornato in ospedale, l’uomo muore, finalmente in pace e con il cuore scaldato dalla consapevolezza di aver avuto, in vita, almeno un amico: il medico.

The elephant man” non è un racconto strappalacrime che indulge al pietismo. Tutt’altro! David Lynch, col suo stile asciutto ed essenziale, riesce a far percepire come, andando oltre l’apparenza dell’aspetto fisico, si possa cogliere l’essenza reale delle persone, anche dei “mostri” come Merrick. Il male non è nel “diverso”, ma nella società che, non sapendo come accogliere quest’ultimo,  lo emargina per paura.

“La classe degli asini”: un film tv sull’inclusione

Non amo particolarmente fiction e dintorni, ma quando, ieri sera, mi sono sintonizzata su RaiUno per vedere “La classe degli asini” sono rimasta piacevolmente sorpresa. Per chi non l’avesse visto, questo film tv racconta la storia di una figura centrale nel processo d’inclusione scolastica degli studenti con disabilità: Mirella Antonione Casale, insegnante e madre lei stessa di una ragazzina resa gravemente disabile dall’encefalite virale. Grazie all’operato di questa coraggiosa donna e di altri suoi colleghi, si è giunti, nella seconda metà degli anni ’70, a superare, finalmente (almeno, sulla carta) le famigerate “classi speciali” o “differenziali”.

Nate ai tempi della riforma Gentile con l’obiettivo di garantire un’istruzione agli studenti in situazione di handicap, tali classi finivano spesso per diventare veri e propri “ghetti”, nei quali venivano letteralmente parcheggiati anche bambini senza alcun handicap, magari solo perché vivevano una situazione di disagio sociale o per il temperamento troppo “vivace”.  Un po’ ciò che accade ne “La classe degli asini”, dove Riccardo, un ragazzino meridionale con una famiglia disastrata, finisce per essere rinchiuso in una sorta di “convitto degli orrori” (dove i bambini subiscono ogni genere di violenza, fisica e psicologica) solo perché, nella Torino del boom economico, si esprime solo in dialetto e fatica a rispettare le regole. Mirella e il collega Felice (che ricorda un po’ il professor Keating de “L’attimo fuggente“) prendono a cuore il suo caso e fanno sì non solo che Riccardo possa lasciare il convitto, ma che vengano alla luce gli abusi lì perpetrati sui bambini. Inoltre, una volta diventata preside ed entrata in contatto con ANFFAS (l’Associazione delle Famiglie di Persone con Disabilità Intellettiva e/o Relazionale), s’impegna a far sì che i bambini con handicap e quelli prima “rifiutati” possano ricevere un’istruzione (e un trattamento a 360°) pari agli altri studenti. Anche grazie al suo contributo, nella realtà, si arrivò, nel 1977, attraverso la legge 517, all’abolizione delle “classi speciali” (che, tuttavia, sopravvissero ancora, di fatto anche se non di nome, per qualche anno, ma si sa che le barriere culturali sono dure da abbattere!) e all’inclusione degli studenti con disabilità nelle classi “normali”, con l’aiuto (ove necessario) di insegnanti di sostegno.

"La classe degli asini" - cast

Il cast del film – Foto ©Fabrizio Di Giulio/ Ufficio Stampa RAI

La classe degli asini” riesce ad affrontare un tema difficile in modo straordinario, senza insistere su pietismo ed emotività, anche grazie alle interpretazioni non solo di Vanessa Incontrada (Mirella) e Flavio Insinna (Felice), ma anche dei giovanissimi (e bravissimi) Giovanni D’Aleo (Riccardo) e Aurora Giovinazzo (Flavia). Come dice Mirella stessa nel film, riferendosi ad un piccolo-grande progresso compiuto da Flavia grazie all’aiuto di Riccardo:

“Si può accendere una lampadina […] Per accenderla, ci vuole qualcuno che prema quel pulsante.”

“Quasi amici”: quando l’amicizia supera le barriere

Può nascere un’amicizia autentica tra un ricco tetraplegico e un assistente squattrinato dalla vita sregolata? La risposta di “Quasi amici“, film francese del 2011 ispirato ad una storia vera, è un sì deciso. D’altronde, la spiegazione si può dedurre già dal titolo originale, Intouchables” (intoccabili). Ma andiamo per gradi.

"Quasi amici" locandina

La storia ricorda, per alcuni aspetti, quella di “Io prima di te“, almeno all’inizio. Anche qui, i due protagonisti principali della storia non potrebbero essere più diversi, almeno all’apparenza: Philippe, nobile benestante reso tetraplegico da un incidente mentre faceva parapendio, cerca un nuovo assistente e, per una pura casualità, anziché uno super-referenziato e dall’aspetto distinto, alla fine, la spunta Driss, senegalese appena uscito dal carcere, che ha bisogno di trovare un lavoro per avere accesso all’assistenza sociale per sé e per i familiari. Dopo un periodo di “adattamento”, tra i due s’instaura una certa complicità, fondata in particolare sul fatto che, agli occhi di Driss, Philippe non è soltanto un malato da accudire ma, soprattutto, una persona con la quale discutere, divertirsi facendo cose folli (per esempio, la corsa iniziale su una fuoriserie e la balla raccontata alla polizia che li ferma), confrontarsi, scambiarsi i gusti musicali, etc. Driss riesce anche a convincere Philippe a riaprirsi ai sentimenti, incitandolo a tornare ad occuparsi della figlia adolescente, ma anche a darsi una possibilità con Éléonore, la donna con la quale intrattiene da tempo un rapporto epistolare, senza avere il coraggio d’incontrarla di persona.

In “Quasi amici”, c’è molto più del classico racconto, trito e ritrito, del rapporto tra persone disabili e “normali”. Philippe e Driss in definitiva, agli occhi della società, sono entrambi “intoccabili”, per ragioni diverse, e forse anche per questo riescono più facilmente ad entrare in sintonia e, alla fine, a cambiarsi la vita a vicenda. Insomma, a mio parere, è un film che merita i tanti riconoscimenti che s’è guadagnato: vale proprio la pena di (ri)vederlo!

“Balla la mia canzone”: un film su disabilità, autonomia, sentimenti

"Balla la mia canzone"Oggi vi parlerò di un film australiano del 1998, che mi ha fatto conoscere Lorella Ronconi, durante la nostra chiacchierata di qualche tempo fa. “Balla la mia canzone” (titolo originale “Dance me to my song“) è stato realizzato da Rolf de Heer, un regista abituato, attraverso le sue pellicole, a dare voce a chi non ne ha. Il film racconta una storia di fantasia, ma con molti punti di contatto con la vita reale di Heather Rose,  disabile gravissima lei stessa, morta nel 2002 a soli 36 anni, che ha scritto la sceneggiatura e interpretato la protagonista, Julia, affetta da paralisi cerebrale che utilizza un sintetizzatore vocale per comunicare col mondo, la quale, nell’ambito di un progetto che promuove l’autonomia delle persone disabili, esce dall’istituto in cui era ricoverata e va a vivere in un appartamento tutto per sé, con l’aiuto di un’assistente, Madelaine, che la mortifica e le usa violenze di ogni tipo, psicologiche e non solo.Ma la vita di Julia non è fatta di sole ombre. A fare da contraltare a Madelaine, c’è Rix, anche lei assistente di professione, che, a dispetto di un aspetto esteriore che ispira ben poca affidabilità, riesce a sintonizzarsi perfettamente sulle frequenze anche emotive di Julia e, soprattutto, a trattarla con rispetto e, in definitiva, da persona, più che da “paziente”. Ma, soprattutto, c’è Eddie, il vicino di casa di Julia, che, gradualmente, instaura con lei un rapporto che va ben oltre la semplice amicizia, suscitando il risentimento e la crudele vendetta di Madelaine.

“Balla la mia canzone” è un film duro, con immagini forti, che lasciano poco o nulla all’immaginazione. Ma ha anche il merito, non da poco, di mostrare in tutta evidenza come, al di là dell’handicap specifico, le persone con disabilità (anche gravi) restano, in tutto e per tutto, persone come le altre, con gli stessi istinti e desideri. E -sorpresa?- possono anche risultare affascinanti e perfino sessualmente desiderabili agli occhi di persone normali: la scena di Julia e Eddie che fanno l’amore è erotica tanto quanto lo sarebbe se, al posto di un’attrice disabile, ve ne fosse una corrispondente ai canoni classici di bellezza e normalità. Solo la visione miope e condizionata da stereotipi di Madelaine le impedisce di capire che non c’è niente di “malato” in quello che ha visto,  sorprendendo i due.

Un film da vedere, “Balla la mia canzone”, anche per riflettere su un altro tema fondamentale: il diritto delle persone disabili all’autonomia, ad essere non solo “oggetto di cura” ed assistenza materiale, ma anche, e innanzitutto, padrone della propria vita, in ogni aspetto.

“Indivisibili”: un film su diversità e cambiamento

È uscito solo da pochi giorni nei cinema, ma “Indivisibili” di Edoardo De Angelis è già diventato un piccolo “caso”, acclamato sia all’ultima Mostra del Cinema di Venezia che al Toronto International Film Festival.

"Indivisibili" - locandina

Il film racconta la storia di Viola e Daisy, due gemelle siamesi  (unite per una gamba) campane che, in un contesto sociale pieno di superstizioni e pregiudizi che le considera un po’ “sante” da venerare e un po’ fenomeni da baraccone, sono costrette dalla famiglia a guadagnarsi da vivere facendo le cantanti neo-melodiche. Casualmente, le ragazze vengono a sapere che un chirurgo potrebbe separarle, consentendo loro, finalmente, di avere una vita autonoma l’una dall’altra. Però, la famiglia si oppone strenuamente a questo loro desiderio d’indipendenza, temendo di perdere la propria fonte di guadagno.

“Indivisibili” offre molti spunti di riflessione, sia sulla quotidianità di chi vive questa particolare condizione che, in generale, sul modo in cui viene vista la disabilità e, in generale, la diversità. Alle due ragazze è negata la possibilità di esprimere la propria individualità, non solo a causa del loro essere fisicamente unite e, quindi, impossibilitate a condurre esistenze separate, ma anche perché, di fatto, il contesto nel quale vivono non riconosce loro la piena dignità di persone. A partire dalla loro “sgarrupata” famiglia, Viola e Daisy sono considerate più freak da esibire e su cui lucrare (a compensazione della “sventura” capitata alla famiglia) che persone dotate di diritti. Anche per questo, la famiglia non concepisce nemmeno che il “gioco” possa finire, in seguito ad un intervento che consenta alle ragazze di condurre esistenze autonome ed inseguire i rispettivi sogni.

"Indivisibili" - le protagoniste

“Indivisibili”, però, non è un film triste: tutt’altro! Volendo, lo si può definire una sorta di favola realistica, nella quale bello e brutto, sogno ed orrore si mescolano e si confondono. Un film che contiene un messaggio semplice, quanto profondo: la libertà di vivere la vita come si vuole, indipendentemente dalla propria condizione, è la cosa più importante.