Sanremo 2021 e il racconto delle disabilità

Premetto che non sono una grande fan del Festival di Sanremo, né dei varietà in generale. Tuttavia, oggi ne parlo perché nell’edizione di quest’anno si è parlato anche di disabilità, in una delle serate, con ben due interventi “a tema”: il monologo dell’attrice Antonella Ferrari e il siparietto fra Zlatan Ibrahimovic e Donato Grande, bomber della nazionale italiana di power-chair football. Due momenti diversi tra loro, sia per il “format” che per lo stile: da un lato, il monologo di Antonella Ferrari, incentrato sulla sua malattia (la sclerosi multipla) e sul racconto del percorso che l’ha portata ad avere, dopo anni, la diagnosi definitiva; dall’altro, il “duetto” fra il campione del Milan e il suo collega “seduto”, con qualche scambio di palla a favore di telecamere. Ma, in entrambi i casi, guardando i video, ho trovato delle “stonature”, più o meno pronunciate”. Analizziamoli singolarmente, per capire meglio.

Antonella Ferrari a Sanremo 2021

Antonella Ferrari si è presentata sul palco di Sanremo in un elegantissimo abito rosso, presentando un breve monologo, molto coinvolgente, nel quale ha raccontato il percorso verso la diagnosi e la sua conseguente felicità, perché, quando finalmente l’ha avuta, non ha più dovuto “nascondersi” (per la vergogna? Per paura del giudizio altrui?), per poi toccare il culmine nel finale:  “La malattia non dev’essere la protagonista. Io non sono la sclerosi multipla: io sono un’attrice, sono Antonella Ferrari”. Verissimo e giustissimo, ma allora perché incentrare il monologo esclusivamente su quel tema? Per sensibilizzare, certo. Ma siamo sicuri che il messaggio arrivato agli spettatori sia stato, effettivamente, quello? A giudicare dai commenti che ho letto sui social il giorno dopo, non credo: ne lodavano tutti il coraggio, l'”esempio” e tutto il campionario della solita, trita e ritrita, retorica che circonda chi vive con una disabilità.

Donato Grande a Sanremo 2021

Ma questo è ancora “niente” in confronto a quanto si è visto quando sul palco è salito Donato Grassi, con Amadeus e Zlatan Ibrahimovic: lui in abbigliamento casual (e maglia da calcio d’ordinanza), in mezzo agli altri due elegantissimi (come l’occasione avrebbe richiesto); una situazione che, nel complesso, ricordava più l’interazione fra due adulti e un bambino (manco a dirlo, quello con disabilità…) che fra tre uomini maggiorenni e l’impressione complessiva che il tutto, più che un omaggio a Donato e alle sue doti sportive, fosse un modo per mettere in risalto il ben più celebre collega. Per non parlare di Amadeus che, partito, tutto sommato, bene, è scivolato in vari punti: dal riferimenti ai diritti di chi “soffre di disabilità” (la disabilità è una condizione, non una malattia…), ai “portatori di handicap“, alla ramanzina paternalista a quelli che, utilizzando i parcheggi riservati, creano problemi a chi ne avrebbe diritto (le sue parole sono state “leggermente” diverse…). Insomma, anche qui, la solita retorica…

Possibile che, nel 2021, non si riesca ancora a mostrare e raccontare le disabilità in un modo che sfugga al dualismo fra “supereroi” e “poveri cristi”? Eppure, sarebbe così semplice… Basterebbe ricordarsi che essere diversi è del tutto normale, non c’è bisogno di usare linguaggi e atteggiamenti infantili: basta il rispetto per le persone, insomma.

Ce la faremo? Spero di sì, nonostante tutto. “Perché Sanremo è Sanremo“…

Turismi accessibili: un premio a chi li fa conoscere

Parliamo spesso di turismi accessibili, una tendenza che si sta affermando sempre di più (fortunatamente!), testimoniando una maggiore sensibilità verso la legittima esigenza e voglia di tutti di viaggiare, conoscere nuovi Paesi e culture diverse dalla propria. Tra l’altro, varie iniziative (anche di “casa nostra”) dimostrano come l’attenzione ai turisti con “esigenze speciali” non sia solo un gesto nobile, ma anche una strategia lungimirante e remunerativa: infatti, considerando che, limitando il discorso alle sole persone con una qualche disabilità, parliamo di circa un quarto della popolazione mondiale, non pensare a modalità per accogliere adeguatamente anche loro significa rinunciare ad una fetta di mercato non proprio trascurabile.

turismi accessibili

Rimane, però, spesso, un problema: far passare correttamente il messaggio sull’importanza dei turismi accessibili e far conoscere tutti i servizi, le strutture e le iniziative già presenti in quest’ambito attraverso i media. Da quest’esigenza nasce un’iniziativa della onlus Diritti Diretti: il Premio Turismi Accessibili, che vuole, per l’appunto, premiare giornalisti, pubblicitari e comunicatori che riescono a “superare le barriere“, raccontando attraverso servizi radio-televisivi, campagne pubblicitarie, video o campagne di comunicazione quelle realtà che sono riuscite a produrre sviluppo socio-economico coniugando attrattività, innovazione, estetica e/o sostenibilità alla cultura dell’accessibilità.

Premio Turismi Accessibili

 

Il Premio Turismi Accessibili, giunto alla terza edizione, è rivolto all’accessibilità che già esiste, nelle varie tipologie di turismo: culturale, enogastronomico, sportivo, congressuale, balneare, montano, termale, scolastico, religioso. L’obiettivo è quello di dimostrare con esempi concreti ai privati e alle istituzioni che investire davvero in accessibilità può migliorare un territorio e la sua offerta turistico-culturale, a vantaggio sia delle persone che lo visitano che di quelle che ci vivono e- aspetto non secondario- con ricadute economiche importanti per le imprese che operano in quest’ottica.

COME PARTECIPARE AL PREMIO TURISMI ACCESSIBILI?

Per partecipare, è necessario registrarsi, compilando, entro il 5 maggio 2018, il form presente sul sito del Premio Turismi Accessibili. Tra i partecipanti, verranno selezionati due vincitori: il  progetto più votato dal pubblico si aggiudicherà 1000 €, mentre quello selezionato dalla giuria di esperti riceverà una targa. Tutti i particolari sul concorso sono consultabili sul bando dell’iniziativa.

PS. Anche Move@bility partecipa al premio con l’articolo dedicato a “B&B Like Your Home“. Potete votarlo a questo link

“Speechless”: si può ridere della disabilità?

Nei giorni scorsi, ho avuto modo di vedere le prime due puntate di “Speechless“, serie tv andata in onda nei mesi scorsi negli USA e ora approdata in Italia (la trasmette Fox sulla piattaforma Sky ogni venerdì sera). Si tratta di una comedy, ma con un particolare non da poco: per la prima volta in questo genere televisivo, il protagonista principale è un ragazzo con disabilità (per chi, come me, è cresciuto negli anni ’80-’90, c’era stato il precedente di “Una famiglia come tante“, che vedeva tra i membri della famiglia Corky, un ragazzo con sindrome di Down, ma il genere era decisamente diverso). Il protagonista, infatti, è JJ DiMeo, un adolescente affetto da una paralisi cerebrale, che lo costringe su sedia a rotelle e gl’impedisce di parlare (da qui il titolo della serie, che, letteralmente, vuol dire “senza parole”) se non con l’aiuto di un dispositivo dotato di tastiera e puntatore laser per scegliere numeri e lettere e, quindi, comunicare con gli altri.

"Speechless"

Ci sarebbero tutti i presupposti per una storia triste e strappalacrime. Ma “Speechless” è tutt’altro: si ride spesso, e anche di gusto. La “diversità” di JJ e le difficoltà quotidiane (memorabile la lotta della super-combattiva madre, Maya, per garantire al figlio l’accesso a scuola dall’ingresso principale e non da quello riservato all’immondizia, nella prima puntata della serie) non vengono nascoste, né sottovalutate. Ma, in primo luogo, dalla serie emerge il racconto della “normalità” di JJ e della sua famiglia. Sì, JJ è malato, ha difficoltà evidenti e, per fare cose che tutti riteniamo scontate, ha bisogno dell’aiuto dei familiari e dell’improbabile (ma spassosissimo) assistente-custode scolastico Kenneth. Ma questo non lo rende inferiore agli altri, grazie al suo humour pungente e alla brillante intelligenza.

Ma la cosa che più mi è piaciuta di “Speechless” è che, contrariamente a quanto si tende a fare spesso in tv o al cinema raccontando la disabilità, qui non s’indulge all’esaltazione della “superiorità” del diverso. Intendiamoci: all’arrivo nella nuova scuola, docenti e compagni provano ad accogliere JJ all’insegna del più classico politically correct, tributandogli un’ovazione immotivata (che lascia il ragazzo alquanto perplesso). Ma, appunto, la reazione sua e dei suoi familiari (personaggi alquanto “pittoreschi”, ma a cui ci si affeziona facilmente) spiazza tutti, facendo capire che, forse, è il caso di cambiare atteggiamento.

Il cast di "Speechless"

Il cast di “Speechless”

Guardando “Speechless, si finisce per non fare quasi caso alla sedia a rotelle e al dispositivo di JJ, presi come si è dalle battute fulminanti che si scambiano i vari personaggi e, tutto sommato, dalla “normalità” che ne emerge. In definitiva, come comprende subito Kenneth, JJ è un adolescente come tutti gli altri, in tutto e per tutto. La sua disabilità è solo una condizione come un’altra, non uno stigma.

Pubblicità e diversità: qualcosa si muove?

Abbiamo ribadito in più occasioni, su questo sito, il ruolo cruciale dei media nell’indispensabile processo di abbattimento delle barriere culturali e di affermazione di una nuova cultura della disabilità. Se passi avanti importanti si registrano in ambiti come il cinema e la moda, con un approccio al racconto della disabilità, e della diversità in generale, che ribalta molti stereotipi del passato, la pubblicità resta ancora un ambito pressoché precluso alle persone con disabilità: ad eccezione delle campagne di Pubblicità Progresso e del popolarissimo spot con Checco Zalone, quanti altri esempi di advertising vi vengono in mente con protagonisti persone con disabilità?

pubblicità

Ci sono, è vero, campagne che puntano a sradicare gli stereotipi legati al concetto di “ideale” di bellezza (un esempio per tutti: la campagna di Dove© per la Bellezza Autentica), ma manca ancora quel passo in più. Eppure, almeno 1/5 della popolazione mondiale, oggi, ha una qualche forma di disabilità: perché escludere queste persone dalla pubblicità, che, a rigore, dovrebbe riflettere tutte le sfaccettature del mondo in cui viviamo?

Tuttavia, qualcosa sembra muoversi. Negli USA, per esempio, sta facendo parlare molto di sé (anche grazie ad un utilizzo massiccio dei social media) Changing the Face of Beauty, un’associazione il cui obiettivo è quello di sollecitare i brand ad utilizzare nelle proprie campagne pubblicitarie anche persone con sindrome di Down.

changing the face of beauty

Foto tratte dalla pagina Facebook di Changing the Face of Beauty

E a casa nostra? Come spesso accade, purtroppo, l’Italia ci mette un po’ a recepire determinati input. Eppure, qualcosa si muove anche nella nostra pubblicità. EatalyNe è un esempio la foto comparsa sull’edizione milanese del quotidiano “la Repubblica” del 1° novembre scorso, per pubblicizzare Eataly Smeraldo, la sede meneghina della nota catena di ristoranti e negozi di enogastronomia “made in Italy”: per la prima volta, vi compare, in mezzo alle altre, una persona affetta da sindrome di Down, che lavora proprio in quel punto vendita. Quindi, non una rappresentazione pietistica della condizione di disabilità, ma un ritratto fedele della realtà: la ragazza, come gli altri colleghi ritratti nella foto, è presente nella foto nella propria veste professionale, non per “esibire il disabile” (e mettersi a posto la coscienza, magari destando un po’ di scalpore).

La vera inclusione di tutti si ottiene non solo garantendo pari opportunità di accesso al lavoro, allo studio, alla mobilità, ma anche vedendo sui media tutte le sfaccettature della società, incluse le persone con disabilità, colte nella propria normalità quotidiana, che, a ben guardare, non è poi tanto diversa da quella di chiunque altro.

 

Parlare di disabilità: le parole sono importanti

Ancora oggi, risulta spesso difficile parlare di disabilità. Quando si affronta questo tema, ci si trova di fronte ad imbarazzo, disagio, quasi che, anche solo pronunciando “quella” parola, si potesse attrarre su di sé la sfortuna.

Per secoli, è stata opinione diffusa che la disabilità (e la malattia in genere) fosse legata ad una “colpa” di chi ne era affetto, una sorta di stigma per indicare qualcuno da cui stare alla larga.  Ne derivava la pressoché completa emarginazione sociale delle persone disabili, nascoste dai familiari (o allontanate da casa), come se si trattasse di una “macchia” da nascondere agli occhi della società.

Oggi, per fortuna, questo pregiudizio è in gran parte superato, almeno nei Paesi più culturalmente ed economicamente avanzati (e non è un caso che le due cose procedano di pari passo, in genere): ci sono leggi che garantiscono alle persone con disabilità pari dignità e diritti in ogni ambito, dal lavoro alla sfera più privata e personale, e cresce la sensibilità verso temi come l’accessibilità e la necessità d’investire risorse importanti su di essa per il bene di tutta la collettività.

Parlare di disabilità

Tuttavia, persistono abitudini scorrette, e spesso offensive (anche involontariamente), quando si tratta di parlare di disabilità o, ancora di più, rapportarsi con una persona affetta da una disabilità, motoria, sensoriale o psichica. Pietà (non nel senso “alto” della pietas di virgiliana memoria), disagio, domande inopportune anche da perfetti estranei (“Che cos’hai esattamente?”, “Perché cammini così?”, “Non puoi fare niente per…?”) , tendenza a considerare la persona disabile alla stregua di un bambino, anche se si tratta di un adulto. Ma anche leggerezza, abitudine ad utilizzare termini associati ad una condizione di disabilità (“handicappato”, “spastico”, “mongoloide” e via discorrendo) come insulti, offese alle facoltà fisiche o cognitive del prossimo o a considerare una persona con disabilità motoria o sensoriale necessariamente “ritardata” (riecco l’offesa…) o, comunque, non proprio con tutte le rotelle a posto.

Come superare tutto questo ed affermare una corretta visione, una vera e propria cultura della disabilità? Le prime risposte che mi vengono in mente sono due: scuola e media.

diversityI bambini sono naturalmente inclini a non discriminare i “diversi”, a meno che un adulto di cui si fidano insegni loro a farlo: è capitato a tutti di vedere bambini appartenenti a culture, razze, condizioni diverse giocare tra loro senza crearsi alcun problema, perché quello che vedono nell’altro è, semplicemente, un compagno di giochi, non uno straniero, uno di un altro colore, o un disabile. È essenziale che la scuola contribuisca a rafforzare questa tendenza innata all’inclusione, favorendo e incoraggiando lo scambio continuo, la convivenza e la condivisione tra bambini normodotati e disabili.

mediaMa anche i mass media possono e debbono svolgere un ruolo importante nel consolidamento della cultura della disabilità, innanzitutto, utilizzando terminologia e modi corretti per parlare di disabilità: meno “tv del dolore” e disabili esibiti come macchiette o fenomeni da baraccone, più disabili nelle trasmissioni (anche come presentatori, oltre che come ospiti o pubblico, perché no?), nei film, nella pubblicità, sulle copertine delle riviste patinate e nelle serie tv. Non necessariamente come gli “infelici”, gli “eroi” di turno. E neanche come i “buoni” per definizione. Non è affatto detto che una persona disabile sia buona, generosa, disponibile con tutti, più saggia o, in una parola, migliore di una non disabile. I disabili, così come tutti, possono essere anche “stronzi”, cattivi, vendicativi, egoisti e quant’altro.

Semplicemente perché coloro che hanno disabilità sono (siamo) persone, con pregi e difetti, come tutti. Persone che convivono con una condizione particolare, certo. Ma persone, non esseri superiori, né inferiori.