Nei giorni scorsi, vi ho parlato di “Non volevo morire vergine“, l’ultimo libro della scrittrice di origine milanese Barbara Garlaschelli. Sull’onda delle emozioni che mi ha suscitato il libro, l’ho contattata e lei è stata da subito disponibile a fare una chiacchierata a distanza con me per Move@bility. Eccovela!
- Per prima cosa, vorrei ringraziarti per aver scritto “Non volevo morire vergine”: un libro che tocca veramente le corde dell’anima, e non solo quelle. Come mai hai deciso di mettere nero su bianco in un libro una parte così intima della tua vita? Perché volevo parlare del tema tabù sesso/disabilità e, per farlo, ho scelto la forma autobiografica per non generalizzare e poter rispondere di persona di ciò che ho scritto. Scrivere è anche un’assunzione di responsabilità e, in un tema così delicato, non si può generalizzare: i disabili non sono una categoria, ma persone, ciascuna con la propria storia.
- Qual è stata la parte più difficile da raccontare? Sicuramente la morte di mio padre.
- Leggendo i tuoi libri, ascoltando le tue interviste e i tuoi reading, emergono una enorme energia e positività: dove si comprano? Io sono stata una donna fortunata: ho avuto genitori eccezionali, che mi hanno insegnato a vivere, a lottare per essere felici, a non tirarsi mai indietro. E poi, ho un carattere che mi ha aiutata: tenace e testardo. Sono una donna curiosa e la curiosità è una molla che ti spinge a vedere cosa accadrà domani…
- Entriamo nel vivo del tema del libro. Anche leggendo alcuni commenti alle tue interviste di questi ultimi giorni sui social media, è evidente il persistere di una sorta di “resistenza” a considerare noi persone con disabilità anche come soggetti (e oggetti) di piacere sessuale. Come mai, secondo la tua esperienza, è così difficile sradicare il tabù che circonda la sessualità (e l’affettività) delle persone con disabilità, e in particolare (forse non a caso) delle donne? Prima di tutto perché siamo in un paese cattolico in cui il sesso, tout court, è ancora considerato un “peccato”, qualcosa di cui non parlare se non sottovoce. Siamo culturalmente arretrati, pieni di paure per ciò che è “diverso”. Il fatto di essere donna è consequenziale a questo discorso: le donne devono fare fatica doppia per dimostrare quanto valgono. Non solo in Italia, purtroppo.
- Nel tuo libro, racconti anche l’imbarazzo di alcuni uomini nel rapportarsi con te “da quel punto di vista”: le domande al limite dell’assurdo (“Ma tu… lì…?”), la goffaggine nella gestione “fisica” della situazione, etc. Spesso, certe esperienze finiscono per scoraggiare dal tentare ulteriori approcci: come sei riuscita a superare questo blocco? Buttandomi nella mischia! Lottando contro la paura del rifiuto. Rischiando, che è l’unico modo per vivere: la paura è il nemico peggiore, io ero il mio peggior nemico.
- Tempo fa, mi è capitato di leggere, sul web, il commento di un uomo (teoricamente “normodotato”) secondo il quale “andare con una disabile è sempre un reato, perché non può esservi consenso”. Posta l’assurdità dell’affermazione (salvo il caso di persone non in grado d’intendere e volere, ovvio), ho potuto sperimentare personalmente che alcuni, pur non arrivando a dirlo, lo pensano comunque: come far capire loro che così non è (senza scomodare un avvocato, magari)? Io non mi scomoderei a far capire nulla a persone che ragionano così. Vorrei non frequentarle e non le frequento.
- Cosa consiglieresti ad una “disabilitata” che non abbia a disposizione amici “volenterosi” per mettere alla prova la propria femminilità o superare un “blocco”? No, non posso dare consigli: ognuna di noi ha una sua strada. Se proprio devo dare un “consiglio”, è quello di arrischiarsi a percorrerla, quella strada, che di certo è davanti a tutti noi. Un “no” non uccide. E se ci si dà una chance, arrivano anche i sì.
- Racconti di aver utilizzato anche le chat, per conoscere uomini. Oggi esistono anche app di dating “per disabili” e siti d’incontri dedicati alle persone con disabilità (e agli “amatori del genere”). A me, lo confesso, sembrano dei ghetti un po’ tristi (per quanto ami il web, per “quello” preferisco sempre l’approccio “vecchia maniera”, faccia a faccia, nato magari per una fortunata coincidenza astrale). Tu cosa ne pensi? Io penso che sia un modo come un altro per conoscere le persone. Poi, è chiaro che deve esserci (se uno lo desidera, ma potrebbe anche non esserci) l’incontro “reale” e allora lì capisci se la persona ti interessa davvero. Ma non ho nessuna chiusura rispetto alla conoscenza prima virtuale, ripeto: è un modo come un altro. Può essere divertente e anche un buon modo per raccontarsi. Tanto, i cretini esistono ovunque, fuori e dentro il web.
- Secondo te, una donna che diventa “disabilitata” nel corso della vita (durante l’adolescenza, come nel tuo caso, o dopo) ha comunque più chance di conservare la percezione della propria femminilità (e la capacità di mostrarla agli altri) rispetto ad una che lo è dalla nascita o giù di lì? Non lo so, non posso rispondere a questa domanda perché posso rispondere solo per me. Io, senza saperlo, l’ho conservata sempre.
- Il tema principale di “Move@bility” è l’accessibilità, in particolare intesa in senso fisico. Quanto influiscono le barriere architettoniche sulle possibilità di vivere ed esprimere la propria sessualità ed affettività? Tantissimo: quello della possibilità di muoversi senza problemi è uno dei nodi centrali sui quali lottare. L’Italia è una barriera totale. Per chi ha difficoltà di movimento, è un inferno. E questo costringe tante persone a restare prigioniere nelle proprie quattro mura: è come vivere agli arresti domiciliari da innocenti.
- Chiudiamo con qualcosa di più “frivolo”: come si fa ad essere sexy anche su una sedia a rotelle o camminando con una stampella? Insomma, quando i tacchi alti non sono neanche lontanamente ipotizzabili? Io, personalmente, ho imparato a mettere in mostra ciò che di bello ritengo di avere. E poi, la sensualità nasce dalla testa: è lì che devi sentirti sexy.